Uscii di corsa dal bed and breakfast e saltai sulla mia bicicletta mezza sgangherata, con l'immancabile seggiolino per Camilla fissato al manubrio. Cominciava a pesare un po' troppo quella piccola peste, era ora che imparasse a pedalare con le proprie gambe.
L'asilo non distava poi tanto dal Sogni Tranquilli; oltrepassato il lungo viale che portava al casale, bisognava pedalare per meno di duecento metri svoltando un paio di volte nelle stradine strette del paese, poi si arrivava all'edificio che era stato ristrutturato negli ultimi dieci anni, risalente ormai a mezzo secolo prima. Era una grande casa dipinta di un giallo vivo con farfalle e uccellini allegri appiccicati ai vetri delle finestre e un giardino che ospitava altalene e piccoli scivoli.
Erano le tre e mezza del pomeriggio e stavano giusto aprendo i cancelli, una piccola folla di genitori si riversava all'interno della proprietà in attesa di ritirare il proprio pargolo.
Uno pensa sempre che in momenti come questi ci si concentri sul cosa chiedere al proprio bimbo o bimba che non si vede dalla mattina, cosa preparargli per merenda, come fargli trascorrere le ore successive in attesa della cena. Invece no. Anche dopo anni che vivevo con mia figlia al bed and breakfast e tutti conoscevano la mia situazione di giovane madre single e, perché no, felice, c'erano persone che bisbigliavano, altre che non si curavano di farlo, al mio passaggio e alla mia vista. Come se fossi stata la prima donna al mondo a crescere un figlio senza padre. Beh, forse per il nostro paese piccolo e antiquato era così.
In più, da quando c'erano state le pubblicazioni delle imminenti nozze tra Michele e Montserrat, le malelingue erano aumentate. Non frequentando regolarmente la chiesa, altro motivo per ricevere critiche, avevo fatto due più due da sola, dopo la visita di Carla.
Come di consueto, dipingevano me come la cattiva e Michele come il "bravo ragazzo che finalmente si sarebbe accasato".
Del resto, avevo imparato a non curarmi di queste voci e trascorrevo i minuti di attesa di fronte al cancello in compagnia di Marina, un'altra mamma single con cui avevo stretto amicizia. Era rimasta vedova a trent'anni, subito dopo aver partorito la sua secondogenita, Beatrice, con la quale Camilla andava molto d'accordo.
Marina mi capiva, sapeva cosa voleva dire crescere dei figli da soli. Lei al momento si trovava ad affrontare anche un quindicenne in piena tempesta ormonale e non mi giudicava per la mia scelta di crescere Cami da sola.
La salutai calorosamente: «Ciao, Marina! Come stai?»
Ignorai due nonne dietro le mie spalle che avevano da dire sul fatto che alzassi troppo la voce. Manco fossimo stati nel bel mezzo di una veglia funebre.
«Ciao, Missi! Oggi Marco è tornato a casa con una nota sul libretto perché ha mangiato un panino durante la lezione di geografia.» Scosse la testa dai riccioli dorati e spalancò i grandi occhi verdi con incredulità. «Non so più cosa fare con quel ragazzo. Se ci fosse stato suo padre di sicuro l'avrebbe rimesso in riga.»
Le posai una mano sul braccio cercando di consolarla. «Passerà anche questa fase. Sicuramente l'avrà visto fare a qualche altro suo compagno.»
Lei sospirò e si incamminò verso l'entrata dell'asilo, la seguii.
«Mamma!» strillò Camilla non appena mi vide e i suoi occhi color nocciola si illuminarono per la contentezza.
Mi abbassai e spalancai le braccia per stringerla forte. «Ciao, amore mio.» Le diedi un bacio in testa. «Oggi torniamo a casa in bicicletta, sei contenta?»
Lei annuì sorridente e salutò la sua amica Beatrice. Anche io mi congedai da Marina e guidai mia figlia fino al parcheggio delle biciclette.
«Ho disegnato un cane oggi» esclamò allegra Camilla, con la sua vocina squillante.
«Davvero? Allora appena arriviamo a casa voglio vedere il tuo bellissimo disegno, d'accordo?»
«Sì! E poi possiamo anche scrivare il nome del cane.»
Aveva pronunciato la "S" di "Sì" a metà strada con una "C" e "scrivere" era una delle parole che sbagliava spesso e volentieri, ma per il resto era una gran chiacchierona e faticavo a farla stare zitta. A volte usava parole che mi sorprendevano per la loro complessità, ma la pediatra mi aveva assicurato quanto i bambini fossero delle spugne e assorbissero tutto ciò che li circondava. Per quello mi mordevo sempre la lingua quando qualche insulto o parolaccia mi affiorava alle labbra.
«Si dice scrivere, amore, non scrivare.»
«Va bene, mamma.»
La presi in braccio e la misi nel seggiolino. «Sei diventata grande ormai, che ne dici se andiamo a comprare una bella bicicletta tutta per te quando la mamma è libera?» le proposi.
Lei ne fu subito entusiasta e per tutto il tragitto verso casa non smise di canticchiare «Cicletta, cicletta. Avrò la mia cicletta!»
Era così allegra e spensierata la mia Camilla, mi rendeva orgogliosa di come la stavo crescendo, con l'aiuto di mia madre, che di tanto in tanto la teneva a casa della sua amica, quando dovevo fare delle commissioni durante le quali non potevo portare la bambina con me.
Tornando a casa, incrociai due delle peggiori pettegole del paese e non mi sfuggì un loro commento fin troppo acido nei confronti miei, ma soprattutto di Camilla, che era solo una bambina e non aveva nessuna colpa, né tantomeno doveva vergognarsi di qualcosa. Evidentemente dovevano essere infastidite dalla sua canzoncina, perché le sentii dire: «Guarda quella piccola peste, come cresce male senza un padre! A quella ci vorrebbe proprio un uomo che la mettesse a posto, a stare in quel casale con tutti quei forestieri non ricaverà nulla di buono.»
Cercai di frenare il meno bruscamente possibile, per non far volare Camilla dal seggiolino; scesi dalla bici e la guidai a piedi, fino a raggiungere quelle due megere, che con la loro mentalità sembravano uscite dal Medioevo.
«Scusate signore,» esordii con un sorriso sulle labbra «non mi pare che io abbia chiesto il vostro parere su come crescere mia figlia e che sia una peste o meno, non sono affari vostri. Inoltre, dato che, diversamente dalla sottoscritta, che disonora tutti vivendo senza un uomo, voi avete dei mariti, perché invece di stare in giro a ciarlare non andate a casa a preparare loro la cena?»
Dissi tutto con un tono tranquillo e pacato, anche se il senso non era tale. Sorrisi un'ultima volta alle due vecchiacce, feci loro un cenno di saluto e risalii sulla bici, pedalando verso il casale.***
Credo che tutti, almeno una volta nella nostra vita, siamo stati oggetto di pettegolezzi o voci false sul nostro conto. Nella storia di Artemisia ho voluto ricreare alcuni personaggi che capita di incontrare nella realtà di tutti i giorni dei piccoli paesini.
Spero che la storia vi stia piacendo! Se vi va, lasciate una stellina :)Maria C Scribacchina
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Ricordami di dimenticarti
ChickLit[COMPLETA - DISPONIBILE IN EBOOK E CARTACEO] Artemisia ha ventiquattro anni e gestisce da sola il bed and breakfast di famiglia, dove vive con la figlia Camilla. Da tempo i pettegolezzi delle vecchie comari del paese non la toccano più: non vuole fa...