Capitolo 18. Un errore

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Si rivestirono in silenzio, senza guardarsi. La luce delle torce si era fatta più flebile, e il calore della stanza si era completamente diradato, come se fosse stato totalmente assorbito dai loro corpi, bollenti dopo l'amplesso appena consumato. L'effetto della pozione stava lentamente svanendo insieme ai suoi vapori, e una leggera vergogna aveva cominciato a irrigidire l'atmosfera.
Nessuno dei due parlò più: mentre Hermione Evocava con un gesto rapido e imbarazzato i vestiti che prima lui aveva fatto sparire, Draco riparava la camicia da lei lacerata, rivestendosi lentamente e facendo attenzione a non degnarla nemmeno di uno sguardo.
Si sentivano entrambi sporchi di una colpa di cui non si sarebbero dovuti macchiare: lei riusciva ad avvertire la tensione con cui lui la teneva lontana, quel pentimento sottile che si intravedeva appena attraverso i muscoli contratti del volto, la mascella serrata, il tremore delle mani. Hermione si sentiva in un certo senso violata nella sua intimità più profonda: anche se era stata la pozione ad agire per lei, quella passione selvaggia che aveva dimostrato di possedere aveva sorpreso persino lei, e ora l'imbarazzo bruciava sulle sue gote. Era stata tanto animalesca da non riconoscersi, e nonostante nutrisse sentimenti ormai certi per lui, provava comunque una vergogna non indifferente per il modo in cui si era comportata. Draco, dal canto suo, pensava di non ricadere mai più in quell'errore. Perché di questo si trattava: un errore. Lei era un errore, il suo sangue era un errore, il suo nome era un errore. O forse era lui l'unico problema? Lui l'unico ostacolo a se stesso? Respirava rumorosamente, e mentre agganciava ad uno ad uno, lentamente, i bottoni della camicia, non poteva fare a meno di pensare che la pozione fosse stata solo la sua scusa, e che lui aveva avuto davvero intenzione di ripetere l'esperienza di quella lontana notte di Luglio. Era un'idea assurda e sbagliata, eppure non poteva pensare altrimenti, perché pur sentendosi profondamente appagato da quell'amplesso, gli sembrava di non aver avuto ancora abbastanza. Se dalle tentazioni ci si liberava cedendovi, perché lui desiderava ancora averla? Si rispose che non era riuscito a domarla come doveva – era stata lei, in effetti, a comandare in quel rapporto – e questo aveva contribuito ad alimentare l'odio che nutriva nei suoi confronti e il bisogno che aveva di vincerla in qualsiasi modo possibile.
Draco chiuse i polsini della manica destra, e quando passò alla sinistra si sorprese un poco nello scorgere la macchia scura che era il Marchio Nero: non era più abituato a vederselo addosso, e quella vista ancora lo inquietava. Si affrettò a richiudere anche quegli ultimi bottoni, lanciando un'occhiata di sbieco a Hermione, talmente concentrata ad allacciarsi la gonna che non aveva notato nulla. Persino prima, durante quel rapporto così selvaggio, l'urgenza e il desiderio erano stati così impellenti da impedirle di notare quel particolare. Rimase a guardarla per qualche istante, contemplando la pelle liscia e lucente delle gambe, e osservando le goccioline di sudore che le scivolavano dal collo fino alla clavicola. Lei dovette sentire il suo sguardo addosso, perché si voltò e incrociò i suoi occhi, fissandolo con ingenuità e un pizzico di vergogna.
Forse fu quell'ultimo sentimento, quel rossore delicato e incredibilmente sensuale, a convincere Draco di aver fatto quanto di più sbagliato potesse. Mantenne sul volto un'espressione neutra: non un solo muscolo del suo volto si mosse, eppure, alla flebile luce delle torce, ad Hermione sembrò di vedere un guizzo vicino all'angolo della bocca, come una smorfia trattenuta. Subito dopo, il ragazzo le voltò le spalle e, senza dire una parola, uscì dall'aula lasciandola lì, mezza nuda e sola.

***


Hermione non dormì tutta la notte. Si rigirò a lungo nel letto, cercando di prendere sonno, ma qualsiasi cosa la disturbava al punto da impedirle di riposare: le lenzuola prudevano sulla sua pelle, riportandole alla mente il calore di quella piccola aula, o forse il tepore di quella pelle così candida e perfetta, seta sulla sua carne; la luce candida che traforava la finestra rendeva più accesa la sua colpevolezza, perché quel colore così puro era quanto di più dissimile dal gesto che avevano compiuto; in lontananza, di tanto in tanto, sentiva il bubolare di un gufo che in qualche modo si ricollegava ai gemiti spezzati di un piacere travolgente che bruciava ancora sulla sua pelle. E poi c'era quell'odore, che la perseguitava: il suo odore. Lo sentiva, in ogni gesto che faceva, ogni volta che si muoveva, come una ventata di opprimente aria bollente che le annebbiava i sensi. Si era impresso addosso a lei, e lo poteva sentire tra le dita ogni volta che si strofinava gli occhi o sprimacciava il cuscino nel vano tentativo di renderlo più comodo.
Alle sei del mattino Hermione si convinse che non si sarebbe addormentata. Si alzò, spingendo via con uno scatto delle gambe la coperta, e si infilò sotto la doccia, convinta di lavare via una volta per tutte non solo il suo profumo, ma anche e soprattutto la sua colpa. Era consapevole che non sarebbe bastata l'acqua fresca a cancellare quella notte di sesso, eppure non riusciva più a rimanere immobile sul letto a rimuginare su ciò che era successo.
Sesso. Quella parola era quanto di più deprimente potesse pensare. Poteva anche giustificarsi la debolezza di una notte, quando l'angoscia aveva avuto la meglio su di lei, impossessandosi della ragione e annebbiandole la mente. Una notte, che nella sua irrazionalità era stata sufficiente a farle perdere il controllo sul cervello, lasciando che il cuore la guidasse verso Draco Malfoy. Gemette al solo pensiero che era stata così stupida da farsi travolgere da sensazioni che non avevano nulla a che fare con la lucidità ferma e controllata che l'aveva sempre contraddistinta. Specie quella notte.
Si sentì meglio quando l'acqua le scivolò sulla pelle, rinvigorendola con la sua piacevole frescura. Strofinò con un'intensità quasi rabbiosa la pelle, senza risparmiare un solo centimetro di pelle, e il sapone al gelsomino sprigionò la sua fragranza, avvolgendola. E con la stessa collera con cui si puliva la cute, decise di mendare i suoi peccati e mettere un punto a quell'umiliazione. Lui non si meritava la sua insonnia; non si meritava niente. Era stato meschino, si era approfittato di lei e di tutta quella situazione.
Stupida. Era stata una stupida a cedere così agli atavici istinti che le avevano acceso i sensi. Lui non aveva dimostrato il minimo interesse nei suoi confronti: il bacio di qualche sera prima era stato solo un mero approfittarsi di lei. Lui non nutriva gli stessi sentimenti che provava lei nei suoi confronti, e lo aveva dimostrato quella notte, quando, subito dopo l'amplesso, se n'era andato senza nemmeno una parola. Solo uno sguardo, gelido e indifferente come sempre lui era stato.
Ma non gli avrebbe permesso di mortificarla ancora: con dignità e per orgoglio, avrebbe assunto lo stesso comportamento che lui aveva deciso di ingaggiare nei suoi confronti. Se era il distacco che voleva, lo avrebbe avuto. Non si sarebbe lasciata influenzare dal suo cuore, non avrebbe permesso a quel ragazzo di usarla come semplice strumento del suo piacere. Giurò a se stessa che l'avrebbe dimenticato, e che non avrebbe permesso mai più che succedesse qualcosa con lui.
Scese a colazione con quella convinzione, e dopo un breve pasto rifocillante si affrettò a dirigersi verso l'ufficio di Lumacorno per consegnarli la pozione. Quasi corse giù per gli scalini, diretta ai Sotterranei, senza pensare che era il miglior posto per incontrarlo: con la pozione stretta in una mano, non aveva altro pensiero che la prossima lezione del giorno, Aritmanzia. Lo studio era la sua migliore arma di difesa, nonché il modo più rapido e indolore che aveva di distrarsi, e dimenticare tutto.
Giunta di fronte alla porta dell'ufficio del professore di Pozioni, bussò due volte brevemente, e poi attese. Pochi minuti dopo il viso assonnato e stropicciato di Lumacorno si affacciò dall'uscio; l'insegnante la guardò con aria interrogativa: lanciò un'occhiata dietro di sé, probabilmente alla ricerca dell'orologio, e poi tornò a fissare la ragazza.
«Signorina Granger?» borbottò incerto, negli occhi una muta domanda. Hermione gli sorrise, e allungò la fialetta contenente la Quintessenza Sensorum.
«La pozione, professore» spiegò porgendogli l'ampolla rosso cremisi con serenità. «Volevo ringraziarla personalmente per l'opportunità che ci ha dato» aggiunse con tono serio, ma non per questo servile. Il professore, confuso, prese la boccetta, annuì un paio di volte e poi, seccato, richiuse la porta, quasi sbattendola in faccia alla ragazza. Questo non contribuì a migliorare l'umore di Hermione, che si era vestita di un sorriso solo per risultare più gradita, ma che invece era stata rifiutata anche da lui. Ron, Draco, ora persino Lumacorno: forse aveva qualcosa che non andava. Il pensiero della sera prima tornò fastidiosamente a tormentarla, complice la luce soffusa dei sotterranei e quella porticina poco distante, luogo del misfatto. Sospirò, e cominciò a incamminarsi verso il suo dormitorio con l'intenzione di prendere i libri per poi dirigersi a lezione; sentì dei passi echeggiare alle sue spalle. Si girò con il cuore in gola, quasi pregustando dentro di sé il piacere che avrebbe provato nell'incontrare di nuovo i suoi occhi. Quando, tuttavia incrociò due iridi verde scuro, al posto di quello sguardo cinereo che tanto amava – gli piaceva, lo desiderava, amare no, amare mai – rimase un tantino delusa. Inconsapevolmente, però, tirò un sospiro di sollievo quando Nott le passò accanto, salutandola con un silente e rispettoso cenno del capo. Quando era già giunto sul limitare delle scale, il ragazzo si voltò verso di lei e la guardò dritta negli occhi, sul volto un'indecisione che svaporò ben presto in un sorriso.
«È andato a colazione cinque minuti fu» disse con un ghigno divertito sul volto. Si beò per qualche minuto dell'evidente e imbarazzata sorpresa che si dipinse in un istante sul volto di Hermione, poi, ridacchiando, le voltò le spalle e salì i gradini a due a due, diretto verso la Sala Grande. La ragazza rimase immobile sul posto, con gli occhi sgranati e nella testa mille pensieri. Come inebetita da quella frase, che gli rimbombava sibillina nella testa, fissava il punto in cui il giovane Serpeverde era scomparso.
Era davvero così evidente?

IL FANTE DI PICCHE E LA DAMA DI CUORIDove le storie prendono vita. Scoprilo ora