Capitolo 3

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«Sei pensieroso?» Gli chiesi dopo averlo osservato per un bel po'.
Il suo sguardo fisso nel vuoto e il suo silenzio opprimente, mi fecero preoccupare.
Iniziai a fargli qualche stupida domanda, ma le sue risposte in monosillabi mi fecero intuire che qualcosa non andava
J era diverso.
Dopo cinque mesi di convivenza ci fu il primo vero litigio.
E non si trattava di quei stupidi capricci con tanto di muso lungo che passa dopo una battuta, si trattava di un punto di non ritorno. Perché da quella sera non l'ho più capito.
«Posso sapere cos'hai?» Dissi sbuffando.
Mi infastidiva tremendamente il suo silenzio.
«Nulla, Elinor» sospirò a sua volta chiudendo gli occhi.
«Nulla? Ma se mi stai ignorando da due ore?» Mi impuntai a braccia conserte davanti a lui che si massaggiò le tempie con un piccolo sbuffo.
«Elinor, può capitare che io abbia una giornata no. Non puoi asfissiarmi solamente perché non ho risposto a qualche tua stupida domanda» la sua espressione era insondabile.
Non riuscivo a capirlo e il sapere che lo stavo asfissiando mi fece rimanere per qualche secondo senza fiato. Come se avessi ricevuto un colpo allo stomaco.
«Bene. Allora rendimi partecipe dei tuoi problemi. Posso cercare di aiutarti...» Cercai di giocarmela diversamente, puntando sulla calma e sul provare a capirlo senza insistenze.
«Non puoi aiutarmi, Elinor» sospirò stanco e si alzò dal divano per infilarsi il giubbino.
«E ore dove vai?» Mi avvicinai a lui allarmata rimanendo in piedi davanti alla porta.
Si fermò sulla soglia. Mi tenne le spalle e si passò una mano nei capelli scompigliati.
«Devo fare una cosa. Non aspettarmi sveglia» aggiunse con un tono così calmo e indifferente che mi raggelò sul posto.

Quella sera, J, non tornò affatto presto.
Restai sveglia a girarmi e a rigirarmi nel letto fin quando non sentii la chiave girare nella serratura della porta.
J tornò alle cinque del mattino.
Sentii i suoi passi entrare e la porta richiudersi.
Restai immobile sul letto a sperare che sarebbe venuto a sdraiarsi accanto a me, ma mi fece attendere un bel po' prima che facesse il suo ingresso in camera. E quando entrò, finsi di dormire.
Ero troppo agitata per iniziare un interrogatorio e sicuramente non sarebbe finito bene. Quindi restai di spalle e feci uno sforzo immane per restare in silenzio a tormentarmi cuoriosa di sapere dove fosse stato per ben nove ore.

Sentii che si tolse le scarpe e i vestiti per poi infilarsi sotto le coperte senza sfiorarmi nemmeno o accertarsi che stessi realmente dormendo.
Si mise su di un lato e si addormentò, o almeno credo.

Da quella giorno J iniziò ad uscire quasi tutte le sere.
Non mi diceva dove fosse diretto, o cosa stesse facendo di notte.
Con me cercava di essere quello di sempre, ma non mi rendeva più partecipe dei suoi pensieri.

Non amdammo a trovare neanche più sua madre. Diceva sempre di non averne voglia e rimandava sempre la visita.
Quella donna deve esserci rimasta davvero male. Era così felice di vederci a casa sua e soprattutto di vedere suo figlio predisposto ad una vita più umile e onesta.
Non avrei mai il coraggio di andare da lei e darle la brutta notizia che J mi ha lasciata scomparendo letteralmente dalla mia vita, anche se un'idea credo se l'abbia già fatta non vedendoci più andare a casa sua.

Tiro su col naso e cerco di impedire alle lacrime di fuoriuscire ancora.
Cosa è successo a J quella sera?
Forse sono stata io a farlo scappare. Io e la mia ossessione verso di lui, di vederlo finalmente cambiato, ha fatto in modo di allontanarlo da me. Forse si sentiva oppresso. Forse l'ho amato troppo e si sa che il troppo amore tende a rovinare un rapporto. Perché il troppo amore da alla nausea, sopprime, soffoca e J non era abituato a riceverne così tanto.
Allora forse ho sbagliato io. Avrei dovuto prenderla più alla leggera. Lasciargli i suoi spazi e non imporgli il mio mondo come l'unica via di cambiamento. Non avrei dovuto pretendere qualcosa di così grande da lui.

Rapita - parte 2Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora