Capitolo 36

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L'angoscia è straziante. La paura disarmante. E il coraggio comincia a vacillare.

Come posso uscire da qui?

Mi tampono delicatamente il lenzuolo fresco sulla bruciatura e trattengo le ennesime lacrime.
Accidenti a me! Accidenti a me e a questo mio maledetto modo di ragionare senza mai pensare alle conseguenze.
Accidenti a J e al suo merdoso passato!
Accidenti a mia madre che non mi ha mai detto la verità!

Sono stanca!
Terribilmente stanca di dover pagare per il passato altrui! E stanca di trovarmi sempre in mezzo a situazioni scomode!

Devo imparare a fregarmene, cazzo!
Essere egoista e pensare solamente a me!

Butto a terra il lenzuolo e mi avvento sulla botola, ma non c'è un manico o un cazzo di pomello che possa tirare verso l'alto. Sembra possa aprirsi solamente dal piano di sotto e io inizio a gridare dalla rabbia e a setacciare l'intera soffitta per trovare qualcosa di utile.

Mi fiondo sotto il letto, nell'armadio, nei cassetti della scrivania e tra qualche scatolone vecchio accantonato in un angolo. Ma non riesco a trovare niente di utile. E quindi inizio a  gridare disperata e a piangere al contempo.

Non mi lascio tenere rinchiusa in questa soffitta. Non mi lascio sopraffare dalla paura. E non voglio sperare in qualcuno che non sono nemmeno sicura arriverà in mio soccorso. Devo contare solo su di me e sulle mie forze!
Niente più insicurezze e debolezze. Gli scherzi della vita e le delusioni mi hanno già fatta soffrire abbastanza.

Inizio a battere i piedi sulla botola. Poi la prendo a pugni. Poi grido a squarciagola gli insulti più schifosi verso il pazzo di sotto che mi tiene rinchiusa.
Stando a quello che mi ha raccontato J, questo psicopatico è sempre stato un tipo disturbato con dei seri problemi di alcolismo, e arrivare a fare del male anche a me, che sono sua figlia, è davvero grave!
E dopo poco finalmente sento i suoi passi sul legno appena sotto di me.

Cerco di calmarmi e ingioio la saliva nonostante abbia la bocca completamente secca.
Mi asciugo le lacrime con il dorso della mano e faccio un passo indietro, verso la scrivania, ad aspettare che la botola si apra. E le mani le posiziono dietro la mia schiena, pronte a prendere il vassoio con la tazza e la teiera.

«Sei in punizione, piccola mia. Mi pare di essere stato chiaro. Più ti ribelli e più non uscirai di qui! Tua madre non ti ha insegnato le buone maniere?» Non so come faccia a rimanere così calmo e pacato e con un sorriso agghiacciante che mi fa voltare lo stomaco.

Prendo un sospiro «Fammi andare via, ti prego» tasto il terreno e cerco di non farlo arrabbiare. Ho capito che non si fa scrupoli a farmi del male. «Ho bisogno di tornare a casa mia, di parlare con mi madre e spiegarle tutta questa situazione. E vedrai che con calma riuscirò ad accettarlo... Mi ci vuole solo un po' di tempo. Ti prego. Prova a capirmi...» cerco di sembrare più sincera possibile, ma lui aggira la botola aperta e prova ad avvicinarsi mentre guarda le sue mani unite all'altezza dello stomaco.

«Mia cara Elinor, ho costruito questa stanza per te. Ho fatto con amore il collage con tutte le tue foto. Mi sono sforzato per starti a debita distanza per tutto questo tempo, e tu mi dici che hai bisogno di altro tempo ancora? Non pensi sia il caso di accettarmi e chiamarmi papà?» Allarga ancora una volta le braccia per ricevere un mio abbraccio, ma il suo sorriso storto mi fa diffidare sempre di più.

«Puoi scordatelo, assassino!» Sbotto prendendo il vassoio nell'esatto istante in cui la sua espressione si contorce e glielo lancio addosso con la teiera che gli sbatte sul petto e la tazza che si rompe ai suoi piedi, e sgattaiolo giù lungo le scale sotto la botola con una velocità assurda e prego di non spezzarmi l'osso del collo.

Rapita - parte 2Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora