49

265 13 0
                                    

La macchina si fermò davanti ad un capannone polveroso, a pezzi, evidentemente abbandonato da tempo.
Denti da squalo aprì la portiera ed uscì all'aria soffocante della sera, mentre il mio guardiano alla sinistra mi afferrò per un braccio, tirandomi bruscamente fuori.

Lo strattonai, lanciandogli uno sguardo di fuoco:
-Non mi toccare, so camminare da sola.
-La bambina sa parlare! - esclamò divertito, con una risata da scemo.
Sorrisi anche io, un sorrisetto freddo e cinico, che avevo imparato a sfoderare quando qualcuno si prendeva gioco del fatto che fossi una secchiona, una figlia di papà, una ragazza protetta, viziata, vissuta nella bambagia, poi, con tutta la forza che avevo in corpo, con tutta la rabbia, con tutta la frustrazione per tutto ciò che non funzionava nella mia vita, per essere sempre quella che doveva obbedire agli ordini degli altri, per essere sempre stata zitta, sottomessa, spaventata, accondiscendente, per essermi tarpata le ali da sola, senza neppur sapere perché, gli tirai un calcio dritto ai gioielli di famiglia, cogliendolo del tutto alla sprovvista.
-Sa anche calciare – commentai, superandolo, mentre si piegava su se stesso, cercando di trovare fiato per respirare.
Denti da squalo si girò di scatto, guardandomi sorpreso.
Per qualche secondo, colsi sgomento nell'espressione del suo viso, quasi si fosse reso conto che io appartenevo alla stessa famiglia di Claudio: io ero lui, adesso. Ero la sua nemesi, il suo fantasma peggiore, ero qualcuno che lo spaventava, lo metteva a disagio, lo faceva sentire inadeguato ed inferiore.
Potevo essere una ragazzina fragile e distruttibile, ma, per una frazione di secondo, ai suoi occhi apparsi immortale, quasi si fosse di nuovo trovato davanti a Claudio, o al suo fantasma.
Poi, si riprese, scrollò le spalle, riassumendo un'aria di sufficienza, strafottente.
Mi prese per un polso, una stretta mortale, le unghie infilate direttamente nella mia fragile carne, una presa da togliere il fiato e sibilò:
-Va bene fare la ragazzina ribelle, se ti fa sentire meglio. Sinceramente non mi importa di ciò che fai o dici, perché tanto non cambia come stanno le cose. Ma non sei nella posizione di dettare le regole: più ti ribelli, peggio è. Forse pensi di dimostrarmi che sei forte, ma, credimi, non sei proprio niente, sei solo un moscerino carino e fastidioso, che ha solo poche ore di vita. Ti schiaccio come un piccolo problema, come ho schiacciato tuo fratello e come..
-Come Gabriel ha schiacciato te, qualche settimana fa? - chiesi alzando un sopracciglio.
Non sapevo bene dove trovassi la spavalderia di rispondere a tono ad uno come lui, dal quale, solo quale giorno prima, sarei stata terrorizzata.
Ma non potevo trattenermi, perché non avevo più freni, paure, tentennamenti, dubbi.
Ero schiava ribelle, non schiava sottomessa.
Adesso mi sentivo come sull'orlo di un baratro, in fondo anche io non avevo più nulla da perdere, quindi tanto valeva giocarsi tutto.
Nessuna paura.
Nessun rimpianto.
Nessun domani.
Tanto avevo solo poche ore di vita.
Me l'aveva detto lui...
-Ascoltami bene, bambina – disse prendendomi il mento tra indice e pollice – non ho certo tempo per i tuoi giochetti di parole. Anzi, ti dirò, più fai la scontrosa, più mi ecciti e più mi ecciti, più ti farò male. -Certo che mi farai molto male, ma non mi divertirò, come non si è divertita nessuna delle ragazze sulle quali hai messo le mani, perché scommetto che sai fare solo così: hai sempre dovuto spaventare e forzare le tue ragazze, altrimenti... - Lo squadrai da capo a piedi con disprezzo e sufficienza, con l'intento di farlo sentire inferiore e sbagliato - chi ti guarderebbe?
Denti da squalo sgranò gli occhi, furioso: solo qualche settimana mi aveva lasciata in lacrime e terrorizzata, salvata in corner dal tempestivo intervento di Gabriel. Per lui ero solo una delle tante ragazze che aveva abusato, picchiato, preso in giro, forzato: non ci voleva molto per capire che fosse ad un passo dalla sociopatia, era una di quelle persone che amano vedere gli altri soffrire, godendo del proprio potere effimero, passeggero, volatile, prevaricatore.

Non avevo molte speranze, ma volevo si ricordasse di me, qualsiasi cosa mi avesse fatto.
Volevo sapesse di che pasta ero fatta, di quanto valessi.
Volevo sapesse da chi venissi.
Ero la sorella di Claudio, avevamo lo stesso impianto genetico, gli stessi accenti ironici, pungenti, sarcastici, come lui gli aveva dato ai nervi al punto da perseguitare qualcuno che non conosceva e alla quale non interessava nulla, anche io dovevo risultargli fastidiosa come una zanzara, un tarlo nella sua testa malata e deviata.

Un gioco da ragazzi - PRIMO INSTALMENT DELLA STORIA DI GABRIEL E CHLOÉDove le storie prendono vita. Scoprilo ora