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Dopo una lunghissima passeggiata per schiarirmi le idee, un gelato meraviglioso, una pizza al taglio in una pizzeria da asporto, dopo una coca cola ghiacciata, un pianto su una panchina, dopo l'acquisto di un vestitino giallo canarino, un paio di scarpe col tacco, dei pantaloni puliti e una camicia bianca, arrivai in hotel che ormai era tardo pomeriggio.

Avevo camminato per un periodo di tempo che mi era parso pressoché interminabile, avevo camminato per secoli, per tutta la mia dannata vita intera: non si potevano cancellare i ricordi e i rancori di una vita.

Semplicemente, a volte, si sentiva la sensazione di girare in circolo, come quei cani che tentano di mordersi la coda, girando su se stessi, stupidi, inutili, fantocci.

Ero tornata a Milano solo da poche ore e già mi trovavo a fare gli stessi, vecchissimi, giochetti autodistruttivi: l'adolescente in crisi, la famiglia a pezzi, il passato mai concluso davvero.

Forse, avrei dovuto solo girare pagina, pensare che avevo ancora tempo per essere felice, libera, finalmente, essere me stessa. Avrei dovuto scappare da Milano, andare via, altrove, cercare di ripartire da zero, un'altra volta.

Ma, se lo avessi fatto, per l'ennesima volta, avrei perso l'occasione per fare i conti col mio passato.

E, sapevo che, qualsiasi cosa fosse successa, dovevo guardare in faccia la realtà, altrimenti sarei stata un fantasma senza pace per sempre.

Avrei dovuto guardarmi dentro, chiedendomi quale fosse il mio problema, senza accusare nessuno, questa volta anche da un punto di vista di autocritica, cosa che non avevo mai fatto. Ero sempre stata una vittima, nella storia della mia vita.

Ora ero decisamente stanca di interpretare ancora quel ruolo distorto.

E non avrei commesso gli stessi errori: sarei stata più decisa, più forte, di polso, non sarei stata una foglia nella tempesta di vento che si agitava sulla mia vita, sarei stata corrente selvaggia, forse, incontrollabile, forse inarrestabile, forse incomprensibile, ma sarei stata ciò che ero.

Mentre camminavo, continuavo a giochicchiare con la busta chiusa che mi aveva consegnato Agnese che ancora conservavo dentro alla borsa a tracolla.

Una busta come tutte le altre, di quelle che si compravano in tabaccheria.

Una busta che poteva cambiare tutta la mia vita.

Mi fermai ad un supermercato e comprai alcune schifezze supergrasse, un panino e una bottiglia di vino di marca scadente, con il tappo girevole in plastica, così non dovevo nemmeno preoccuparmi di stapparla con il cavatappi.

Mi feci una doccia fredda e mi concessi ben sei minuti sotto quel gettito di spade che mi feriva la pelle.

Due docce in un giorno solo!

E al campo morivano di fame.

Versai il vino in un bicchiere di plastica, che, tecnicamente, doveva contenere il mio dentifricio e lo spazzolino. Aprii un pacchetto di patatine ed iniziai a sgranocchiarle avidamente, finendole quasi subito.

Mi buttai sul panino al salame, divorandolo alla velocità della luce.

Evidentemente, quella passeggiata mi aveva messo fame.

Appoggiai il cellulare sul comodino, in modalità silenziosa.

Una leggera vibrazione mi avrebbe avvertito, se mai qualcuno mi avesse cercato.

Ma nessuno mi avrebbe cercato, perché in pochi sapevano che ero tornata in città.

Mi spazzolai i capelli con lentezza maniacale, lanciando, di tanto in tanto, occhiate preoccupate alla busta che si affacciava, impertinente, dalla mia borsetta.

Dovevo aprirla?

Dovevo far finta di niente, quasi ci fosse un elefante, in quella camera deprimente, quasi non lo vedessi, quasi potessi fingere che niente stesse succedendo?

Dovevo girare il viso, dovevo chiudere gli occhi?

Dovevo lasciare l'ultimo grido di mio padre inascoltato?

Nella vita, tutto accadeva per una ragione ben precisa.

Una t-shirt addosso, un paio di mutandine pulite, la finestra aperta sulla città rumorosa e trafficata.

Un po' confusa per il vino di pessima qualità che avevo trangugiato, quasi a stomaco vuoto, dopo una vita di sobrietà assoluta.

Non ero mai stata una assidua bevitrice, più che altro bevevo per dimenticare o per farmi coraggio, quindi, se non avessi bevuto quella notte, non avrei bevuto mai più.

Lanciai un'occhiata all'orologio: era troppo tardi, o troppo presto.

Era quella parte del giorno in cui l'ora era talmente indefinita che si faceva fatica a capire.

Poteva essere notte fonda, poteva essere pieno giorno.

Con tutto quell'alcool in corpo, non avrei mai potuto saperlo

E non importava.

Mi sedetti sul letto, la borsetta al mio fianco, indecisa sul da farsi.

Tenni la busta chiusa tra le mani per un tempo più o meno infinito, qualcosa che potevano essere dodici anni, oppure dodici minuti.

Cosa si deve fare, quando un morto ti vuole parlare?

E, soprattutto, se non si sa se si vuole ascoltare davvero quella voce dall'oltretomba?

Potevo lasciare chiusa quella busta, anche se era l'ultima, pressante, invasiva, richiesta di mio padre.

Papà, nel corso dei pochi anni che avevamo trascorso insieme, mi aveva sempre chiesto di fare cose difficili, mi aveva sottoposto a prove inaccettabili, mi aveva spinto al limite, mi aveva portato all'esasperazione, e ogni suo singolo gesto mi aveva lasciata spaventata e disorientata.

Infinite conversazioni iniziate, mai nessuna portata a termine.

Domande senza risposta.

Non avrei permesso a niente e a nessuno di mettermi le briglie, un'altra volta.

Per quanto fosse difficile, impossibile, spaventoso ed inquietante, presi la busta tra le mani e la osservai come si osserva un alieno.

Dentro a quella busta c'era tutto il mio destino.

O forse niente, chissà.

Bevvi un sorso di vino, mordendomi un labbro, osservando l'involucro chiuso, il mio nome vergato da una calligrafia che mi ricordò quella di papà, solo più incerta, traballante.

Inspirai a fondo e strappai la busta, quasi mi strappassi via un braccio. 

Un gioco da ragazzi - PRIMO INSTALMENT DELLA STORIA DI GABRIEL E CHLOÉDove le storie prendono vita. Scoprilo ora