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Stavamo seduti, abbracciati come una cosa sola, su una panchina nel parco poco distante da casa sua, il naso all'insù, verso un cielo di stelle, di cui tentavamo di ricostruire forme sensate.
Un cane.
Un cavallo.

Una bicicletta.
Una strada. Ah, grazie, quella era la Via Lattea, complimenti per la battuta.
Gli lanciai un'occhiata di rimprovero e lui alzò le mani in segno di resa.
Eravamo lì da poco più di mezz'ora, una delle tante serate dedicate solo a noi.
Sentivo qualcosa vibrare nella tasca dei suoi pantaloni e alla terza volta, alzai un sopracciglio, dicendo: -Forse è il caso che rispondi.
-No, la sensazione è piacevole.
-Cretino. Potrebbe essere importante – obiettai con una smorfia.
Estrasse svogliatamente il cellulare e osservò il chiamante:
-E' Alex. Può aspettare – lo ripose accanto a sé, spegnendolo del tutto.
-E se fosse importante? - chiesi, aggrottando la fronte – Dopotutto devo a lui se sono sana e salva.
-No, a dir la verità, lo devi a me – fece, piccato.
-Scusa se metto in discussione la tua posizione di comando. Ma è stato lui ad avvertirti.
-Lui era lì perché glielo avevo detto io. In caso contrario... - non seppe più come finire la frase.
-Ora, con ogni probabilità, sarei a fare compagnia a mio fratello – finii, alzando le spalle – non ti devi preoccupare di dire la verità. Perché è vero.
-Non è una cosa a cui mi fa piacere pensare.
-Nemmeno a me, ma mi piace chiamare le cose con il proprio nome.
-A volte sei così incosciente e priva del senso di pericolo, che mi spaventi. Un'altra ragazza, al tuo posto, sarebbe terrorizzata, tu hai superato tutto senza problemi.
-Oh, beh, diciamo che anche io ho gli incubi. A volte mi sveglio tutta sudata e ho l'impressione che ci sia qualcuno, a fissarmi, fuori dalla mia finestra: come riesci ad entrare tu nella mia stanza, non vedo perché non debba riuscirci qualcun altro dotato di una discreta determinazione - mi accorsi della sua espressione preoccupata e mi affrettai ad aggiungere – Ma ovviamente non c'è nessuno.
-Sappi che c'è sempre qualcuno che fa la guardia. Sempre.
-Mi spiace causare tutti questi inconvenienti...
-Non sono inconvenienti. Vorrei solo ti sentissi al sicuro.
-Mi sento al sicuro – gli confermai, prendendogli la mano e baciandone il dorso – tu mi fai sempre sentire al sicuro. E, ora, quando torno dal corso di portoghese, la prima cosa che faccio è accertarmi che ci sia qualche faccia conosciuta che sia lì ad aspettarmi, che mi segua fino a casa, fino a quando mi chiudo il portone di ferro alle spalle e mi avvio verso casa. Prima, però, li saluto sempre. Ormai li conosco tutti, da Alex, a Federico con la t-shirt dei Ramones, fino a Stefano, con gli occhiali da sole a specchio. Sono le mie guardie del corpo: non è mica da tutti avere qualcuno che ti protegge ad ogni ora del giorno.
-Come fai a conoscerli? - chiese aggrottando la fronte.
-Ammetto che, a volte, facciamo la strada insieme. E parliamo un po' – un'ombra velò il suo sguardo, qualcosa di molto simile alla gelosia – Mi faccio raccontare di te. Sono i tuoi amici, mi danno una visione alternativa di chi sei.
-Allora sto proprio messo bene – scosse la testa, preoccupato – immagino che cosa ti abbiano potuto dire.
-Che sei un amico leale, sei sincero, sei un leader. Hai carisma, ti butteresti nel fuoco per un amico vero. Che hai il cuore di un leone, che non hai paura di nulla. Mi hanno raccontato le tue gesta e, in confronto, gli eroi dell'epica sono delle mezze calzette.
Gabriel scosse la testa, distogliendo lo sguardo per mascherare l'imbarazzo.
-Per quanto possano sembrare una gang agli occhi di tutti, per me sono amici.
-Ti adorano.
Annuii nel silenzio della notte tranquilla. Intrecciai le mie gambe con le sue e lo abbracciai di slancio, restando così per qualche minuto, fino a quando non sentimmo dei rumori soffocati alle nostre spalle. Gabriel si mise immediatamente in guardia, mi spostò bruscamente, facendomi rannicchiare per terra, ai piedi della panchina e sibilò:

-Non ti muovere e non dire nulla.
Si alzò in piedi, guardandosi intorno come un cane da caccia, annusando l'aria per sentire da dove arrivasse il pericolo.
Io trattenni il respiro, temendo il peggio: chi poteva sapere che fossimo lì, che eravamo soli?
Gabriel si mise una mano in tasca, estraendo qualcosa che subito mi sembrò un accendino, poi lo fece scattare e una lama di ferro brillò nel buio.
Un coltello?
Un coltello a serramanico?
Ma stiamo scherzando?
Sgranai gli occhi, molto più sorpresa da quella scena che dal potenziale pericolo che si stava per abbattere su di noi. Alla nostra sinistra, un cespuglio si mosse e, dalle frasche, emerse Alex, un po' spettinato e trafelato.
Gabriel inspirò a fondo, rilassandosi, mentre io non riuscivo a distogliere lo sguardo da quel coltello ancora brandito.
-Ma che cavolo, Alex?! - sbottò nervosamente.
-Eh, scusa – rispose alzando le spalle, un po' mortificato – ma ti ho chiamato almeno cento volte.
-Lo sai che ero con lei – disse indicandomi con un cenno del capo, mentre mi rimettevo in posizione eretta – non potevi aspettare qualche ora?
-No, altrimenti avrei aspettato – si avvicinò, cercando di recuperare fiato.
-Cosa è successo? - chiese esasperato. Alex lo prese per una spalla, allontanandolo da me.
Rimasi lì come una scema, non solo ancora scioccata per il coltello a serramanico che Gabriel sfoderava con nonchalance dopo avermi promesso di fare del proprio meglio per tenersi alla larga dai guai, ma addirittura messa da parte senza troppi complimenti.
Di solito, non ero una di quelle persone che sbottavano.
Non mi piacevano le sceneggiate, specialmente dopo aver vissuto per anni in una famiglia dove i drammi e i litigi erano all'ordine del giorno.
Tuttavia, in me stava montando una collera cieca, un senso di delusione e tradimento che non riuscivo a domare, riuscivo a malapena a respirare, a tenermi sotto controllo, mentre soffocavo, mentre quasi non vedevo più dalla rabbia.
Era un bugiardo.
Mi aveva tradito.
Mi aveva fatto una promessa e non l'aveva mantenuta.
Un coltello a serramanico, dannazione!
Gabriel viveva in un mondo troppo diverso dal mio.
Non era possibile.
Non potevo accettarlo.
Passò un quarto d'ora, durante il quale Alex e Gabriel continuarono a confabulare, gesticolando, chissà di cosa, mentre io, come una scema, restavo seduta su una panchina, al buio.
Bugiardo.
Mi alzai in piedi, ripulendo il dietro dei miei pantaloni dai piccoli aghi di pino caduti dall'albero alle spalle della panchina.
Cercai di calmare il respiro, poi girai i tacchi e, senza preoccuparmi di dire una parola o dare una spiegazione, mi allontanai, nel nero della notte.
Gabriel non si sarebbe accorto di nulla, troppo preso a confabulare con il suo amico.
Uscii dal piccolo parco in punta di piedi, mi guardai a destra, a sinistra, mettendomi alla ricerca di un taxi a quell'ora della notte. Lanciai un'occhiata all'orologio: era quasi mezzanotte e non avevo idea di come rientrare a casa.
Mi incamminai per la strada deserta, illuminata male da un lampione che emetteva luce ad intermittenza, sul punto di spegnersi completamente.
Dovevo cercare un taxi, dovevo pur tornare a casa, in qualche modo.
-Chloé! - sentii la sua voce e i suoi passi veloci alle mie spalle, ma non mi fermai.
Se mi fossi fermata, se l'avessi guardato, se solo avessi aperto bocca, non sapevo davvero che sarebbe successo.
Mi raggiunse nel giro di qualche secondo, appoggiò una mano sulla mia spalla, facendomi girare di scatto:

-Ma che ti prende? - mi chiese aggrottando la fronte, era così lontano da me che non aveva assolutamente idea di cosa mi stesse passando per la testa.
Io avrei voluto spaccargliela, quella testa.
Non lo amavo, non lo amavo per niente, non potevo amare qualcuno che mi aveva mentito, che mi aveva trattata come una ragazzina a cui si racconta una favola, perché tanto lei, povera sciocca, era così ingenua ed impreparata al mondo che ci avrebbe creduto.
-Sto andando a casa, torna pure dal tuo amico.
-Era questione di minuti, Chloé, non potevi aspettare un attimo? - allargò le braccia, esasperato dal mio comportamento, lontano anni luce dal comprenderlo – Te ne sei andata senza nemmeno dirmi una parola.
-Non hai capito proprio niente e se pensi che me ne sia andata perché hai parlato con un tuo amico, allora non mi conosci per nulla.
-Mi spieghi che ti prende? - chiese nuovamente, scuotendo la testa.
-E così giri armato – dissi senza aggiungere nulla. Lui roteò gli occhi e sbottai: - Non roteare gli occhi, non farlo con me: io non sono una di quelle ragazze senza cervello a cui sei abituato. Non mi servono le tue spiegazioni e i tuoi giri di parole: ho visto il tuo coltello, mi avevi promesso che saresti stato attento, che ti saresti chiamato fuori da questo giro e non l'hai fatto. Non sono stupida. Non c'è bisogno che mi spieghi, perché mi hai mentito e la cosa è chiarissima.
-Non farne un dramma, è un coltello, non una pistola.
-Perché, hai anche una pistola? - chiesi alzando un sopracciglio. Ormai ero così arrabbiata che, più lui si avvicinava a me, più io indietreggiavo.
-No che non ho una pistola, che domande.
Un passo indietro.
Un altro ancora.
Finii contro al muro di un palazzo, mi guardai intorno per cercare una via di fuga. Intorno a noi solo il deserto.
-Stai cercando di scappare? - chiese sorpreso e un po' ferito.
-Voglio andare a casa mia. Adesso. - risposi, cocciuta – Quindi o mi riporti a casa subito, oppure mi dici dove posso trovare un taxi. Altrimenti, in un modo o nell'altro, mi arrangerò da sola.
-Chloé, non fare così. È un coltello che ho da anni, che non ho mai usato, lo tengo con me solo per sicurezza. Questo non fa di me un delinquente.
-E scommetto che Alex è venuto a parlarti di qualcosa che riguarda Andrea – che, per la cronaca, era il nome reale di Denti da Squalo. Sbottai, alzando la voce di un tono. Non mi rispose, per cui fu evidente che l'argomento dibattuto era precisamente lui. Annuii, distolsi lo sguardo e sibilai: - Sei solo un bugiardo: tu non vuoi lasciare questa vita, a te piacere fare il bulletto di periferia. E, sicuramente, non conto abbastanza per farti cambiare idea.
-Non farlo – appoggiò entrambe le mani ai lati delle mie spalle, bloccando ogni via d'uscita. La sua stazza imponente avrebbe dovuto intimidirmi, ma non abbassai lo sguardo, non volevo essere di nuovo inferiore.
Non questa volta.
-Cosa? - domandai spavalda.
-Non fare paragoni tra la mia vita e te.
-Teoricamente, io dovrei fare parte della tua vita – picchiettai il suo petto, proprio dove batteva il suo cuore – ma solo in teoria, perché a te basta dirmi di sì e pensi che possa credere a tutto, solo perché ho più sentimenti verso di te, quindi sono disposta a credere ad ogni cosa che esce dalla tua bocca. Pensi di potermi dire qualsiasi cosa, tanto ti crederò ciecamente, perché non sono nessuno, non ho nessuna esperienza, perché... perché sei così pieno di te che credi di... - sbuffai, scuotendo la testa - Pensi di potertela sempre cavare, perché, per qualsiasi cosa farai, sarò sempre così innamorata da perdonarti tutto. Beh, ti annuncio che, anche grazie a te, sono diventata una persona diversa e, per quanto possa farmi male, più di ciò che provo per te, importa che tu mi abbia mentito e delusa. Non hai una pistola, almeno così dici, ma adesso non credo a niente che esca da quella tua bocca. Ti ho dato il mio cuore e mi ha ingannata. Giri armato, come un cavolo di gangster! Io... Davvero io... Non posso credere alle tue parole, perché è evidente che mi hai mentito: non hai nessuna intenzione di cambiare le cose. - appoggiai con forza una mano su una delle due braccia che mi teneva bloccata al muro e lo obbligai ad alzarla – E non ti chiedo di scegliere tra me e la tua vita. Perché tu hai già scelto.

Lo superai senza aggiungere altro, non avevo nient'altro da dire.
Mi incamminai senza alcuna direzione, alla ricerca di qualche segno che mi facesse capire come tornare a casa.

Gabriel rimase fermo, impalato, alle mie spalle, incredulo per ciò che avevo appena detto, per essermi ribellata, per avergli dato le spalle ed essermi avviata nel buio, lontano da lui. 

Un gioco da ragazzi - PRIMO INSTALMENT DELLA STORIA DI GABRIEL E CHLOÉDove le storie prendono vita. Scoprilo ora