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2008

Raggiunsi la precaria postazione internet del campo per effettuare l'accesso alla mia casella di posta elettronica.

Il sole, sopra alla mia testa, coperta da un cappellino da baseball verde militare, era alto nel cielo e sembrava ancora più caldo del solito. Avevo, con il passare del tempo, imparato ad adattarmi al clima inclemente di quella parte del mondo, ma, ogni volta che mi convincevo che potevo affrontare il caldo, l'arido sole che ti condannava come una maledizione, l'afa soffocante, le mosche, la puzza di cadavere e cancrena, il sudore e la sabbia del deserto che entrava nei polmoni, ecco che arrivava una nuova piaga: scorpioni, insetti dall'aria minacciosa, lo scirocco che alzava la polvere e faceva piangere gli occhi, una nuova epidemia di dissenteria.

Chiunque diceva di conoscere l'Africa o era pazzo o era un illuso.

Nessuno conosceva l'Africa, troppo insidiosa per farsi conoscere, troppo vasta per farsi esplorare, troppo estrema per essere compresa.

Entrai nella tenda adibita a postazione internet, per usare un termine molto lusinghiero: in realtà, godevamo di quel lusso poco o nulla, la connessione era lentissima, sporadica, offerta da gestori pagati dai benefattori del mondo civilizzato.

Civilizzato tanto per dire.

Raggiunsi il vecchio pc che funzionava ancora per miracolo, mi sedetti alla scrivania di plastica ed avviai il generatore che dava vita al quel pezzo di museo.

Eppure, in quell'angolo del mondo, un pc, per quanto vecchio e malfunzionante, era un vero lusso.

Grida e risate fuori dalla tenda improvvisata, suoni che difficilmente si udivano in quell'angolo di mondo in apparenza dimenticato da Dio, alzai lo sguardo verso la finestra della tenda da campo e vidi alcuni bambini che giocavano a calcio. Ekundayo, il mio figlioccio, un bambino di nove anni orfano e salvato per miracolo pochi mesi prima, dopo lo sterminio della sua famiglia, indossava la maglietta di una famosa squadra di calcio italiana: era arrivata con l'ultima tornata di aiuti umanitari provenienti dall'Europa, lui ne andava orgogliosissimo e sfoggiava un sorriso bianco, tutto denti, tutto occhi.

Vide il mio viso incorniciato dalla finestra nella tenda e si fermò nel bel mezzo del campo da calcio improvvisato, mancando clamorosamente uno stop piuttosto semplice, ricevendo una serie di schiamazzi di rimprovero dai suoi compagni di squadra. Alzò la mano dal palmo rosa in segno di saluto e sfoderò la sua risata infantile e buffa.

Sorrisi anche io, mandandogli un bacino da lontano, appoggiando due dita alla tempia, in una specie di buffo saluto militare.

Ekundayo rise di cuore, divertito dal mio gesto, poi riprese a correre dietro al pallone mezzo sgonfio, in quel campo da calcio improvvisato, due paia di ciabatte logore a delimitare le porte e nient'altro.

Era come giocare a calcio sull'orlo di un burrone, che dava su una spianata piena di rovi, serpenti e veleno.

Era correre in un campo di morti, saltando i cadaveri con gli occhi ben aperti, perché ormai la morte era così di casa da non stupire più nessuno.

Era l'Africa, bambina.

Ma loro giocavano, ridevano, gridavano, fingevano, per qualche ora, di essere ancora bambini in un luogo che non era per nulla adatto ai bambini. Ma ci provavano, si attaccavano alla vita con tutta la disperazione e la tenacia di chi non vuole morire.

Quindi, per il momento, andava bene.

Alla loro età, sette anni, dieci anni, non avrebbero dovuto preoccuparsi di altro che correre dietro ad una palla, ridere, bisticciare per quale fosse la migliore squadra di calcio dell'universo, pensare a mangiare schifezze, ridere, guardare i cartoni animati in televisione.

Un gioco da ragazzi - PRIMO INSTALMENT DELLA STORIA DI GABRIEL E CHLOÉDove le storie prendono vita. Scoprilo ora