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Trascinai la valigia attraverso lo scompartimento e scesi dal treno sulla banchina affollata, travolta da cento persone che correvano avanti ed indietro, incespicai, mi guardai intorno, smarrita, alla ricerca di una faccia conosciuta che non trovai. La preside aveva detto che ci sarebbe stato qualcuno ad aspettarmi, al mio arrivo, ma non vidi nessuno, nessun volto familiare, nessun sorriso, nessun cenno di saluto, solo visi di sconosciuti, gente che mi passava accanto senza accorgersi di me: mossi qualche passo incerto, mentre una coppia di turisti mi superava dandomi una gomitata, mi cadde la borsa e mi chinai a raccoglierla senza dire nulla. La coppia non mi aveva vista, non si era accorta di me, della mia presenza, di avermi urtata.

Ero praticamente invisibile.

E la stazione di Milano non mi era mai sembrata più ostile, sconosciuta, estranea.

Mi guardai intorno, smarrita, sperduta come mi fossi appena svegliata da un coma, nessun viso familiare, nessuna faccia conosciuta, nessuna spiegazione.

Solo la mia enorme valigia, scomodissima, che intralciava il mio cammino e quello, in senso contrario, degli altri turisti intorno a me.

-Chloé – mi sentii chiamare a gran voce, girai lo sguardo intorno a me, cercando di intuire da dove provenisse quella voce maschile che non seppi identificare subito, fino a quando, tra milioni di facce sconosciute, vidi quella di mio padre.

E mi spaventai.

Aveva un'aria stanca ed abbattuta, pareva invecchiato di dieci anni dall'ultima volta che l'avevo visto, non sorrideva, al contrario, aveva un'espressione colpevole e rammaricata sul viso, come se tenesse dentro chissà quale segreto che non voleva confessarmi.

-Papà! - esclamai volando tra le sue braccia, quel gesto istintivo, non da me, che ero sempre un po' fredda e formale, lo colse di sorpresa e, altrettanta, fu la mia sorpresa nel sentire il suo forte abbraccio, tanto forte da stritolarmi, un abbraccio che non presagiva nulla di buono, ma che faceva solo pensare alla disperazione, ad un limite raggiunto e superato, che sfociava proprio in quell'abbraccio forte e abbandonato. E, infatti, nel giro di qualche secondo, sentii le sue lacrime scorrermi tra i capelli, come un fiume che non si poteva arginare, come qualcosa che aveva trattenuto per troppo tempo e che ora era libero di sfogare in una tempesta di emozioni senza capo né coda.

Alzai lo sguardo e, dai suoi occhi, capii che ciò che era successo era grave, che non riusciva a dirmelo proprio perché era qualcosa di inimmaginabile, troppo brutto, qualcosa che non poteva aver voce, un mostro orribile che era ad un passo dal farci la guerra, distruggere le nostre vite, cambiare tutto per sempre.

Non ebbe bisogno di spiegarmi: sapevo che quel suo sguardo portava la morte nella mia famiglia, una morte inattesa, qualcosa di così scioccante che aveva lasciato tutti sconvolti, lui per primo.

-Claudio – disse semplicemente e il mio cuore cadde in una specie di burrone senza fondo.
Abbassai gli occhi, alla ricerca di ossigeno e parole.

Mille domande si attorcigliarono tra le mie viscere, perché?

Quando?

Come?

Cosa era esattamente successo?

Lui ora dov'era?

Perché non eravamo con lui?

Perché perdevamo tempo prezioso in quell'abbraccio quando potevamo andare da lui e perché mio padre continuava a piangere come un ragazzino, a singhiozzi rauchi che strappavano il cuore?

Perché non riuscivo a versare una lacrima, anche se la situazione mi era chiarissima?

Avevo capito subito che Claudio non stava male, non s'era sbucciato un ginocchio, non era all'ospedale. Claudio era all'obitorio e non c'era più nulla da fare per lui: era scritto a chiare lettere sul volto di mio padre.

Un gioco da ragazzi - PRIMO INSTALMENT DELLA STORIA DI GABRIEL E CHLOÉDove le storie prendono vita. Scoprilo ora