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Per uno come lui, pronto a seguirmi fino alle fauci dell'inferno, presenziare al mio fianco ad un funerale era una passeggiata di salute.

Sorrise, annuì e non dovette dire altro.

Camminammo fianco a fianco non so per quanto tempo, come se non fossero passati anni, ma come se, camminare al suo fianco fosse la cosa più naturale ed inevitabile che potessi fare. Quasi non avessi altra scelta, via di scampo.

Camminammo per strade illuminate dal sole, ci fermammo a pranzare in un piccolo ristorante a gestione familiare e, come succedeva anni prima, anche in quel momento, ovunque andassimo, tutti conoscevano Gabriel.

Tutti gli facevano strada, ossequiosi, tutti pendevano dalle sue labbra stupende, dal suo sorriso, da un gesto della sua mano.

Certo, dopotutto lui era il centro del mondo.

Dopo tantissimo tempo, mangiai finalmente cibo commestibile e non qualche panino confezionato o cibo spazzatura che, prima o poi, avrebbe avuto effetti nefasti sul mio fegato.

Lanciai sguardi furtivi al mio interlocutore, che avevo sognato, desiderato, atteso per un tempo che poteva variare dagli undici anni fino all'infinito. Gabriel era sempre bello, pelle senza imperfezioni, labbra carnose, di un rosa delicato, fresche come i petali di una rosa, profumo intenso, capelli ricci, non indomabili come li ricordavo, ma sempre ricci erano. Ed erano sempre folti, tanti che avrei potuto passarvi le mani e aggrapparmi, a quei ricci profumati.

Era più alto.

Più uomo.

Più "finito".

Era bello come me lo ricordavo, forse anche di più, perché, ora che ero una donna, avevo occhi diversi: ero cambiata, ma era cambiato anche lui.

Mi persi nei suoi occhi.

Era bellissimo tornare a ridere alle sue battute.

Fissare, imbambolata, le sue labbra.

Sentire le nostre risate fuse.

Era come innamorarsi di lui ancora un'altra volta, era come innamorarsi al cubo, era come innamorarsi di nuovo per ogni dettaglio che riscoprivo sul suo viso.

E la sensazione era semplicemente splendida.

Uscimmo dal ristorante e camminammo ancora, le sue dita a cercare le mie, intrecciate, disperate, strette e mischiate come se da quella stretta dipendessero le nostre vite, percorremmo strade, vie, ponti, piazze, camminammo senza meta, per ore, fino a quando il tramonto non calò sulla città, allungandone le ombre e le prospettive.

Non sentii male ai piedi, non ero stanca e non mi sentivo fiacca per i postumi ancora piuttosto invasivi della malaria: per la prima volta stavo bene, bene davvero.

Parlammo di tutto: della sua sorellina, della malattia di mia madre, di come avesse visitato la tomba di Claudio una volta a settimana, regolarmente, parlammo tanto di Claudio, episodi buffi o assurdi della sua breve vita avventurosa, di quanto fosse unico, speciale, di quanto mancasse, gli raccontai di Patrizio, della lettera che mi aveva scritto mio padre, mi parlò di suo zio e della sua famiglia.

Ore e ore, senza che mai una volta il silenzio calasse tra di noi.

Dopo tutto quel camminare, ci ritrovammo proprio davanti al mio albergo.

-Io, per ora, sto qui – dissi, lanciando un'occhiata alla struttura un po' scrostata.

-Un albergo? - domandò aggrottando la fronte.

-Già, beh, non è che potessi tornare alla villa che non abbiamo più o chiedere asilo a mia madre e al suo compagno che ha l'età di Matusalemme. Sono tornata ieri ed è già un miracolo che abbia trovato un buco in questa città infernale.

Un gioco da ragazzi - PRIMO INSTALMENT DELLA STORIA DI GABRIEL E CHLOÉDove le storie prendono vita. Scoprilo ora