Epilogo: Commiato

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La stanza era sempre in penombra, come l'avevo lasciata qualche settimana prima.

Fuori, sui vetri la pioggia continuava, come se non avesse mai smesso, a disegnare reticoli e griglie, a creare una tenda viva, negandomi l'esistenza del sole brasiliano.

Lui aveva gli occhi chiusi, le guance più scavate, non sdraiato, seduto con la schiena su grandi cuscini. Aveva la testa piegata su un lato, col respiro leggermente rumoroso. Non lo svegliai, ma rimasi in silenzio a guardarlo nella penombra della stanza d'ospedale, dove i rumori erano ovattati e il tempo scorreva più lentamente.

Mi aveva preso in giro tutta la vita e pure mi consideravo fortunato di averlo avuto come fratello. Fino all'ultima volta non mi ero fidato dei suoi giochini, e alla fine avevo avuto la conferma che me ne aveva giocato uno lunghissimo, durato vent'anni.

Ormai avevo realizzato e digerito il fatto che fossi un alieno e quindi un adottato a casa di quella che avevo sempre considerato la mia famiglia. Ma non me ne ero reso conto fino all'ultima mia visita in questo ospedale, all'inizio di questa inattesa avventura.

Il silenzio rimase animato solo dal respiro affaticato dal male inesorabile e dalle gocce di pioggia sui vetri; passò quasi un'ora, con le luci della camera che in certi momenti s'abbassavano, incrementando a tratti la penombra e dando l'impressione che la notte s'avvicinasse più velocemente.

Stavo per andarmene, quando lui finalmente aprì gli occhi e disse:
- Te ne vai?
- No! Eccoti, come ti senti?

- Ottimamente. Vabbè si, diciamo meglio del solito. Tu?
- Ho fatto quello che hai detto.

- Sai che mi sembri cresciuto, più alto?

S'interruppe, ebbe un accesso di tosse, ma era secca, non c'era niente in gola, come se il corpo volesse eliminare con gli spasmi quello che lo aveva attaccato e non ci riuscisse. Attesi che la crisi passasse, lasciandolo un po' paonazzo.

Nonostante tutto riprese a sorridermi sornione, in qualche modo ricordandomi il gatto di Alice nel paese delle Meraviglie:
- Ho visto in TV una nave aliena mezza mangiata.
- Ah quella? Io non c'entro, è stata una bomba quantica. Un russo s'è fatto saltare, forse un po' pazzo, ma ha salvato la terra.

- Quindi non sei stato tu? - e girò gli occhi al cielo, sorridendo anche di più e sollecitando una mia reazione, com'era suo solito.
- Vabbè ho fatto altro, ad esempio mi sono preso la nave su New York.

- Quella che è rimasta giù? Ma dicono che le autorità non siano riusciti a entrare.
- Sì, li ci va solo chi dico io.

- Ma in TV sembrava fosse una conquista di quel tipo, quello che ride a bocca aperta...
- Il Maggiore Hurt? Lasciamo perdere, uno dei peggiori politicanti che abbia mai visto. E devi stargli lontano, ha una salivazione abbondante e la mazzetta facile.

- Beh lui almeno ha catturato quei dieci soldati alieni, l'ho visto quando li consegnava alla navicella che li ha portati via.
- Uff... ti dovrei raccontare cosa è successo, ma sarebbe veramente un po' lunga.

- Sarà, in ogni caso in televisione si vedeva sempre e solo lui - e sorrideva com'era suo solito. Ci stavo cascando ancora, ovviamente sapeva o intuiva più di quanto dicesse. Provai a cambiare discorso:
- Abbiamo perso qualcuno sul campo, due dei miei stretti collaboratori, Walter e Jude.

- Ho sentito, ma visto cosa hanno combinato questi guerrieri potevano esserci molti più caduti. Iskra quando me la presenti? - eccolo, effettivamente sapeva più di quello che fingeva.
- È giù nella hall dell'ospedale, salirà fra un po'. Non voleva disturbare.

- Allora state assieme?
- No no - tirai su le mani a difesa di non so che - Sì, cioè, collaboriamo molto strettamente... ma ti prego non fare quel tipo di ammiccamenti con lei!

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