PROLOGO: Lea

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LEA
Avevo 12 anni, ero seduta su quella vecchia panchina davanti alla scuola.
Sarebbe stato un momento molto tranquillo: con i cinguettii degli uccelli sugli alberi, con la fresca brezza che mi scompigliava i lunghi capelli neri; se solo non fosse arrivata quell' odiosa oca di Luise Eaton a disturbarmi.
< Oh guarda un po' chi c'è, l'orfana. >
< Smettila Luise. >
Mi chiamava in quel modo da quando aveva scoperto che abitavo nell'orfanotrofio.
< Perché sennò che fai? Chiami la tua mamma? Oh giusto, non ce l'hai. >
So che non me la sarei dovuta prendere, so che avrei dovuto lasciar perdere, ma dopo quasi un anno non ce la feci più.
Mi alzai in piedi e la guardai intensamente. Lei aveva un ghigno crudele stampato sulla faccia.
Non so bene cosa successe dopo però Luise non si mosse più.
Due piccioni erano fermi, inanimati, sopra la mia testa.
Non battevano più le ali per volare.
Sventolai la mia mano davanti al viso della ragazza che fino a qualche secondo prima rideva; non successe nulla.
Dopo aver guardato ancora una volta gli uccelli, le foglie immobili sul marciapiede e Luise, scappai.
Però, nel momento che fui in strada, tutto tornò normale: i due piccioni andarono per la loro strada, il vento cominciò di nuovo a soffiare e Luise si guardava intorno confusa.
Quello che successe dopo non è molto importante e, sinceramente, non me lo ricordo molto bene.
Ora ho 16 anni, diciassette domani e in questi 5 anni ho capito che cosa posso fare e come controllarlo.
Sono Lea e posso fermare il tempo.
Lo facevo a mio piacimento, quando più volevo.
Non è stato molto difficile capire che lo potessi fare però è stato difficile capire come poterlo fare.
All'orfanotrofio non lo sapeva nessuno, non dovevano venirlo a sapere per nessun motivo perché mi avrebbero mandato via e mi avrebbero scambiato per un mostro.
All'inizio pensavo le stesse cose anche io: pensavo di non essere normale, di essere solo un errore che doveva andarsene via.
Poi ho capito che era un potere unico di cui potevo servirmene.
Così lo feci.
Iniziai ad allenarmi: subito non riuscivo ad usufruire del mio potere, poi a poco a poco diventavo più potente e lo riuscivo a controllare meglio.
Adesso lo fermo quando voglio, con facilità, solo che non lo faccio molto spesso. Un po' perché mi stanca e poi lo uso quando davvero ne ho bisogno.
All'orfanotrofio mi trattavano tutti male, non so pienamente il motivo per cui lo facevano, ma lo hanno fatto.
Alcune volte mi rifugiavo in biblioteca per poter stare tranquilla, per poter stare nel mio mondo senza dover far uso del mio potere.
E, infatti, stavo proprio andando nel posto che più amavo.
Per me i libri sono la vita. Mentre leggi entri in un mondo diverso, in un mondo irreale certo, però più stupendo.
Entrai e un odore famigliare mi invase le narici.
Mi diressi frettolosamente verso lo scaffale dei romanzi fantasy, presi un libro a caso e andai a sedermi su una sedia vicino alla finestra.
Il libro raccontava di un ragazzo, solo, in giro per il mondo.
Mi venne quasi in mente la mia vita. Sola, in giro per questa cittadina sperduta.
Volevo tanto scoprire se ero davvero sola o se esistevano, da qualche parte, altre persone come me.
Un'idea alquanto strana si fece largo nella mia testa.
Mi alzai e andai verso la stanza dove si trovavano i computer.
Era una stanza piuttosto lunga, con quattro tavoli di legno scuro messi in orizzontale e su di essi c'erano tre computer ognuno.
Ero già stata prima d'ora in quella sala: ero andata lì per cercare un libro di fantascienza.
Aspettai che il decrepito computer si accendesse ma ci stava mettendo una vita.
A Jacksonville, dove vivevo e dove ho sempre vissuto, l'unica biblioteca che c'era era quella in cui mi trovavo io quindi sarebbe dovuta essere affollata, dovrebbero esserci più persone ma non c'era nessuno, non c'era anima viva.
Solo io e la bibliotecaria.
Finalmente l'aggeggio davanti a me si accese e scrissi sul motore di ricerca 'ragazzi che fermano il tempo'.
Speravo di trovare un libro o qualunque altra cosa che mi potesse aiutare a capire chi sono.
La pagina che si aprì era l'immagine di un libro. C'era scritto che era rilegato in pelle nera e che aveva più di 300 pagine.
Non esitai un secondo, andai subito verso la scrivania della vecchia signora che, in qualche modo, mi teneva compagnia.
Margery era una piccola donna, era esile e gentile d'animo.
< Buon pomeriggio Lea, ti serve aiuto?> mi chiese la bibliotecaria con una flebile vocina acuta.
< Salve signora Margery, le vorrei chiedere se può vedere se c'è un libro qui in biblioteca. >
< Il titolo? >
< I Figli Del Tempo. >
Stetti ad ascoltare il ticchettio delle unghie sui tasti di plastica grigia.
< No, non c'è. Mi dispiace. > Margery mi guardò con i suoi grandi occhioni marroni e mi sorrise.
Le sorrisi a mia volta e tornai al mio posto.
Se non c'era qui dove avrei dovuto prenderlo?
Digitai su google 'I Figli Del Tempo'.
Il libro si trovava a Chicago.
Spensi sbadatamente il computer e tornai a casa, all'orfanotrofio.
La mia camera era alquanto piccola: c'erano due letti, uno mio e l'altro di un'altra ragazza, attaccati al muro opposto alla porta. Io e l'altra ragazza avevamo in comune solo il vecchio grande armadio.
Presi il minimo indispensabile, li misi nello zaino che usavo giornalmente per andare a scuola, ed uscii senza farmi scoprire.
Facendo, per poco tempo, la babysitter mi ero guadagnata abbastanza soldi per poter pagare il taxi fino all'aeroporto.
Non avevo il minimo ripensamento per quello che stavo per fare.
Durante il viaggio mi rilassai perché dopo avrei dovuto usare il mio potere ed era meglio stare calma e tranquilla.
L'autista ci mise meno tempo di quanto mi aspettassi ad arrivare a destinazione.
Avevo un po'di paura a dir la verità. Non mi ero mai mossa da Jacksonville e adesso stavo prendendo un aereo, una cosa completamente nuova per me.
L'aeroporto era un edificio gigantesco. C'erano persone ovunque, erano tutte intorno a me, andavano e venivano da chissà quale città. Persone che si abbracciavano, altre che piangevano e altre che cercavano i loro bagagli sul nastro. C'era un gran frastuono ma in un attimo cessò.
Le persone erano immobili, non si muovevano più e c'era un silenzio quasi disumano.
Chi avrebbe mai immaginato che in un aeroporto ci fosse un silenzio così.
Lasciai delle banconote sul sedile del passeggero del taxi e mi mossi in mezzo alla gente. Facevo attenzione a non toccare gli altri corpi con il mio. Era davvero un'impresa, perché ce ne erano tantissimi.
Mi fermai davanti ad una donna dietro ad un bancone color bianco sporco e feci ripartire tutto.
< Salve, vorrei un biglietto di sola andata per Charleston. > dissi in fretta.
La donna, che avrà avuto si e no 35 anni, mi guardò come se non avesse sentito neanche una mia parola.
< Oh...si...certo. > digitò qualcosa sul computer e poi mi porse un pezzo di carta rettangolare gialla.
< A lei signorina. Mi può dare la sua- >
Non finì la frase perché bloccai il tempo un'altra volta.
< Fila H posto C. > constatai ad alta voce.
Il volo sarebbe partito dopo 10 minuti, mi bastava solo trovare l'aereo esatto.
Lasciai il biglietto sul bancone e mi diressi, con il cappuccio della mia felpa alzato sulla testa, verso le uscite che andavano verso gli aerei.
< Il volo per Charleston è arrivato. Preghiamo i passeggeri di dirigersi verso l'uscita numero due. > disse una voce maschile all'auto parlante.
Ero sfinita. Fermare e riavviare il tempo così tante volte richiede molta energia, non è facile, ma ne valeva assolutamente la pena.
Lo lasciai scorrere fino a quando non arrivai all'uscita definitiva.
Salii tranquillamente le scale dell'aggeggio volante, cercai il mio posto e andai a sedermi.
Ero alla fine dell'aereo ed ero accanto al finestrino; ero, fortunatamente, ben nascosta.
Feci ripartire il tempo.
Speravo con tutta me stessa che non mi scoprissero.
Almeno una dozzina di persone salì sul mio stesso aereo e poi una voce ci informò:
"Il volo 235 sta decollando. Prego, mettere le cinture di sicurezza e spegnere il telefono."
Un sospiro di sollievo uscì dalla mia bocca.
Ero andata all'aeroporto alla mattina, speravo di arrivare a Charleston entro sera.
So che questo può sembrare un furto, salire su un aereo senza pagare, ma non avevo abbastanza soldi per pagare il volo. E poi, così facendo, se l'orfanotrofio mi avesse cercato non avrebbe più visto il mio nome da nessuna parte.
Alcune volte mi sento come se il mondo volesse vedere fino a che punto resisto, ma io so resistere e tutti gli ostacoli che incontrerò in qualche modo li supererò.
Ormai il veicolo era nel cielo, in mezzo alle nuvole ed io l'avevo scampata.
Ora mi bastava solo rilassarmi e riposare. Avrei iniziato il giorno dopo il mio viaggio per capire chi sono.

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