Capitolo 23 - Nonno Henry

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Nei giorni successivi non ho fatto altro che entrare ed uscire da casa di Jeffrey, con una frequenza tale da farmi preoccupare sinceramente per i vicini. In città sono tutti piuttosto schivi e molti inquilini sono studenti, quindi si può godere di un giusto quantitativo di privacy; tuttavia il professor Morgan, con la sua stazza e la sua sola presenza tende a farsi notare e, ancor di più, può saltare agli occhi una studentessa che entra ed esce da casa sua in media due volte al giorno. Ai rumori preferisco non pensare nemmeno.

Le lezioni sono sospese per la sessione d'esami e Jeffrey va in università solo per poche ore al giorno, quel tanto che basta ad incontrare studenti e dottorandi bisognosi di aiuto. Quanto a me, divido il mio tempo tra la biblioteca e casa sua, dove posso comodamente studiare storia tra le sue braccia, magari prendendolo in giro per tutte le cose che lui ha visto e vissuto, ben prima che io fossi anche solo un'idea.

Sono passate due settimane dal suo ultimo viaggio scozzese, ma ancora non sembra ce ne saranno altri. Da allora non ci sono state telefonate misteriose o verità nascoste, nessuna risposta vaga, solo tanta tenerezza sul suo divano di pelle, così morbido e profumato di lui.

Mi avvio verso casa con il cappuccio dell'impermeabile alzato, stanca per lo studio e intorpidita dal sesso. Una pioggia leggerissima mi inumidisce il viso e, improvvisamente, mi fa realizzare che forse per la primissima volta in vita mia sono felice. Non serena, come quando frequentavo il liceo e i miei problemi maggiori erano quelli di matematica. Ora sono proprio felice e me ne rendo conto perché tutto quel che accade sembra avere un sapore diverso, un colore dolciastro, un suono basso e graffiato, di quelli che ti graffiano l'anima. Forse è solo la voce di Hozier nelle mie orecchie o forse è la sensazione di lui che ancora non mi ha lasciata e non mi lascia mai, tanto che quando sono a casa, a cena con papà, devo stare attenta a non lasciarmi andare e a non sorridere come una scema davanti al piatto dell'arrosto.

Dalla fermata dell'autobus davanti casa posso vedere la luce del soggiorno accesa e un'ombra che si aggira dietro le tende. Pulisco con energia i polacchini di cuoio sullo zerbino personalizzato Stevens, poi entro.

"Sono a casa" urlo, mentre sono ancora nel vestibolo. Ad accogliermi in ingresso, con mia grande sorpresa, trovo nonno Henry.

Quando a mio padre chiedono di nonno Henry, lui racconta sempre lo stesso aneddoto: ai tempi in cui papà non era altro che un adolescente dinoccolato e particolarmente introverso, nonno Henry portò a casa un meraviglioso cane pastore, di quelli col pelo lucente e gli occhi chiari, forte, atletico e incredibilmente attraente. Lo chiamò Pablo, come Picasso, e prese a volergli bene come ad un figlio; anzi, più che a suo figlio. Papà non ha mai amato particolarmente lo sport, tuttavia nonno Henry, cultore del fisico e della prestanza che un uomo è tenuto ad avere, gli aveva imposto la corsa campestre. Ebbene, nonostante la riluttanza iniziale, si era scoperto portato; così portato da entrare nella squadra di corsa del Christ College, ai tempi in cui aveva frequentato l'università. Ma tornando a Pablo: papà racconta sempre che, dopo una delle gare più importanti della sua carriera liceale, tornò a casa con una medaglia d'argento e buona dose di soddisfazione. Il commento di mio nonno fu: "Pablo sarebbe arrivato primo."

Nonno Henry mi spalanca le braccia e, mostrandomi la sua dentatura perfetta, mi dice solo:

"Allora, che aspetti? Dai un abbraccio al tuo povero nonno!"

"Nonno Henry! – esclamo, facendo il mio dovere di nipote, abbracciandolo. – Non sapevo che saresti venuto!"

"Non lo sapevo nemmeno io." Dice mio padre, raggiungendoci ai piedi delle scale.

Nonno Henry mi tiene entrambe le mani sul viso e mi sorride.

"Ho pensato di farvi una sorpresa, per non dare a tuo padre la possibilità di scappare. Come stai?"

Victoria's state of mindDove le storie prendono vita. Scoprilo ora