7. Colletto di Volpe e Lentiggini Bau

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Dwayne non era certo di come fosse finito su quel divano, in quella specie di salotto arredato male, all'interno di quella casa vecchia e dipinta d'azzurro che gli aveva immediatamente ricordato il Far West.  

In realtà le cose avevano iniziato a sfuggire alla sua comprensione alla fiera del fumetto, c'è da precisarlo, ma la faccenda era precipitata assieme alla carrozza Thestral e non solo per modo di dire. Cercava di ricordare cosa fosse successo dopo che era stato estratto dai rottami del mezzo, ma l'unica cosa che riusciva a ricordare erano un paio di trecce nere e blu, un sorriso luminoso che gli aveva ricordato quello di un supereroe e una canotta lustrinata azzurra e oro. Basta. Successivamente erano accaduti un sacco di eventi che, nella sua testa, avevano completamente perso un filo logico temporale a favore di un remix: si vedeva trascinato via attraverso distese di fragole, circondato da un intero campo estivo di ragazzini in technicolor, presentato a una donna dai riccioli neri.  

L'unica cosa che aveva capito era che i ricci corvini e il top pieno di lustrini erano connessi, per il semplice fatto che la proprietaria di entrambi in quel momento gli sedeva davanti, su una poltrona d'aspetto consunto ma comodo. Lo squadrava con attenzione e Dwayne, che era seduto sul divano a fiori da più di dieci minuti, non sapeva più dove posare lo sguardo. Forse sarebbe stato più facile, se non si fosse dimenticato il suo nome. Non aveva nemmeno idea di come iniziare un discorso se non con un maleducato "Scusi, lei".  

No, no. Fuori questione. Che figura ci avrebbe fatto? Meglio stare zitto e attendere una sua reazione.  

Cacciò le mani sotto il sedere e tentò di rimanere calmo, concentrando con cura le mille domande che gli venivano in mente.  

La donna, era palese, non aveva alcuna intenzione di iniziare un discorso. Sembrava in attesa di qualcosa, con il viso voltato verso la finestra che dava su un lato della casa, lo sguardo perso negli assolati prati che correvano inesorabilmente incontro a una fitta muraglia silvestre.  

Dwayne si chiese per l'ennesima volta cosa aspettasse. Una rivelazione? Un avviso? Un permesso? 

Mai avrebbe immaginato che l'attesa era riservata alla trionfale e infartante entrata di un uragano dai capelli rossi.  

"Ma che è successo?!" Tuonò la donna altissima che era sbucata dall'ingresso del salotto senza il minimo cenno di preavviso. Dwayne fece un balzo sul divano, conscio di aver sfiorato il colpo apoplettico in tenera età, ma la signorina dai riccioli neri non ebbe la stessa reazione, anzi: si limitò a voltare la testa, come se la watussa rossa avesse tossicchiato con la grazia di un maggiordomo discreto. Dwayne la osservò meglio nel tentativo di tranquillizzare i battiti del suo cuore e si rese conto che non solo indossava la stessa maglietta arancione fluo degli altri ragazzi - era lapalissiano che non avesse avuto una madre attenta al decoro pubblico come Sarah Houssain - ma che attorno al collo portava un'orrida pelliccetta di volpe. 

La valutazione del suo aspetto non contribuì di certo a farsela piacere.  

"È arrivato." Disse semplicemente la cheerleader, indicandolo. Gli occhi gialli di Colletto Volpino si posarono su di lui e Dwayne notò anche gli strani canini aguzzi. Cominciò a temere per la sua vita.

Deglutì a vuoto, mentre sussurrava, spaventato: "S... salve." 

"Nel nome del Padrone." Esclamò la donna, muovendo un passo verso di lui, così ampio che Dwayne pensò di ritrovarsela in braccio. "In nome del Padrone... non mi dire che quella meteora infuocata che ho visto precipitare dal bosco erano loro." 

"Esattamente." Confermò granitica Riccioli di Carbone. Colletto schioccò la lingua, palesemente infastidita.   

"Sempre quando sono a caccia." Brontolò. "Mai un minuto di pace." 

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