Una popolare credenza occidentale asseriva che la lingua del popolo Inuit possedeva ben cinquanta parole per descrivere la neve, in tutti i suoi stati e le sue forme.
La seconda domanda che più comunemente era stata rivolta a Sia - dopo quella sulle foche - in quei lunghi anni trascorsi a New York era legata proprio ai nomi della neve: perché ne avevano così tanti? La veneravano? Era una dea dalle molte forme?
Sia aveva sempre trovato divertenti quelle ingenue supposizioni, perché mancavano un punto fondamentale: le cinquanta e più parole con cui gli allevatori di husky chiamavano i loro cani in onore di un presunto legame con il popolo del Grande Nord semplicemente non esistevano.
C'erano sempre state due parole per indicare la neve in quanto tale, tutto il resto era rappresentato da parole annesse ad altre parole, perché la lingua di Sia si componeva di affissi e ogni caratteristica si univa all'altra in un carosello di lettere.
Era la magia dell'inuktitut, della lingua più musicale che fosse mai uscita da una gola umana. Musicale come il canto di un ruscello durante il periodo del disgelo, degli schiocchi di legno carichi di neve, del goffo gorgogliare della foca e del richiamo lontano del lupo della tundra.
Il sangue di Sia aveva sempre risposto al ritmo della sua lingua materna: era qualcosa che non poteva controllare, perché non era possibile impedire al ricordo delle sue generazioni precedenti di unirsi al richiamo. Era troppo importante ricordare, rispettare, onorare.
Così, per quanto le domande fossero ingenue e senza senso, Sia pensava che sì, in qualche modo la neve era una dea, una dea del ricordo, della lingua madre, della sua voglia di vivere.
Per questo la visione che le si presentò davanti quando aprì la porta della sua cabina ebbe su di lei un effetto totalmente opposto a quello degli altri semidei che avevano avuto la sfortuna di inzuppare le proprie ciabatte nella neve appena caduta: era come un dono, un prezioso dono degli dei, un segno, perché non era stata dimenticata, non poteva essere stata dimenticata perché la neve era lì con lei, la dea delle sue origini. Sembravano passati anni dall'ultima volta in cui aveva potuto concedersi un attimo per godere della sua presenza. A casa, nella zona più remota e fredda dell'Alaska, al confine con il Nunavut, la grande terra degli Inuit canadesi, poteva tornarci per pochi giorni all'anno e a New York nevicava, certo, ma non era lo stesso, mai, perché la neve di New York era grigia e sporca ancora prima di posarsi al suolo e nel Campo Mezzosangue, comunque, faceva sempre bel tempo.
Sia non pensò affatto che potesse essere legato all'incubo che aveva fatto la notte prima, che le aveva fatto salire la febbre e piangere nel sonno come una bambina, perché la neve non era mai stata crudele con lei, era fredda, calma e silenziosa come lo era sempre stata sua madre, con le sue guance gelate e i cristalli di ghiaccio ad ornarle la fronte, quando tornava a casa da lei dopo il lavoro. La neve era sempre stata sua alleata e nemica giurata del sole, che era biondo, crudele e sorrideva angelico mentre tagliava la gola ai più deboli. Sia non poteva fidarsi di quei raggi gialli che mettevano allegria alle persone, perché la nascita dell'astro era legata a un incesto e ad una vendetta nella sua cultura. E poi, in fondo, era proprio il figlio del sole che il giorno prima le aveva nuovamente reso la vita un inferno.
Il pomeriggio precedente era stato uno dei più duri della sua vita al Campo. Forse il più duro, dopo la battaglia di New Troy. Prima di allora non era mai capitato che Callan andasse da lei con tutti i suoi accoliti, cinque o sei ragazzini di altre cabine e maligni intenti, i bulletti da cui aveva tentato di difendere il suo nuovo fratellino Eric, che la facesse circondare da loro come cani in un'arena, dietro l'armeria. Sia non era mai stata picchiata tanto violentemente come il giorno prima. Non sapeva cosa avesse scatenato l'ira di Callan in quel modo, ma in fondo non le importava. Era solo certa che il dolore al petto e allo stomaco non sarebbe passato tanto presto e men che meno l'avrebbero fatto i lividi che aveva sulle cosce, sulle spalle e sulle braccia. Callan l'aveva presa a calci, a pugni, aveva permesso a quei piccoli mostri di tirarle i capelli e ridere di lei mentre lui le sputava addosso, una volta che si era arresa piangendo alle percosse. Si era premurato di ricordarle quanto facesse schifo, quanto sarebbe stato bello che se ne andasse, ancora meglio che morisse, perché era grassa, stupida, puzzava di grasso di balena e il Campo Mezzosangue, gli Stati Uniti, il mondo intero non avrebbero saputo che farsene di lei.
Per la prima volta Callan l'aveva minacciata con un coltello. Doveva averlo preso nell'armeria poco prima che lei chiudesse la porta, un secondo prima che fosse circondata dalla banda di violenti. Glielo aveva puntato alla gola, con la punta rivolta nell'incavo del collo. Aveva anche premuto, chiedendole di piangere di più, di chiedergli di non farle del male.
Lo aveva fatto, Sia. Piangendo, aveva implorato di lasciarla andare. Callan lo aveva fatto, ma prima aveva fatto in modo di lasciarle un piccolo taglio che aveva stillato sangue per un quarto d'ora, come ricordo della sua sconfitta.
Era stato difficile nascondere tutto a Rob per l'ennesima volta. Era stato difficile ma necessario, perché non avrebbe saputo sostenere il suo sguardo di rabbia sul cui fondale, per lei, bolliva un minestrone amaro di compassione e pietà. Era stata scelta come capocasa da lui e quel briciolo di imperituro orgoglio che ancora le bruciava nelle viscere riottosamente impazziva quando lei si lasciava andare alla disperazione e si trovava sul punto di confessare la verità al fratello. Era stata scelta come capocasa da lui, appunto: nessun capocasa in nessuna epoca da che il Campo Mezzosangue esisteva era mai stato debole e vittima di soprusi come lei. Quella sarebbe stata davvero la goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso della sua capacità di sopportazione.
Sia era convinta che prima o poi Callan avrebbe messo fine alla sua vita. Forse per sbaglio, forse con intenzionalità, non era poi così importante saperlo: l'avrebbe fatto e Sia contemplava con cheta rassegnazione quel futuro così cupo. Sarebbe successo e allora i suoi tormenti avrebbero trovato una fine. A volte si spaventava per quelle riflessioni che sfioravano con eleganza la linea del suicidio, ma non dopo il massacro di cui era stata oggetto.
In fondo, si era detta mentre tentava di contenere i singhiozzi isterici che le scuotevano il corpo come bombe inesplose, perché non avrebbe mai voluto far sapere ai suoi fratelli, che in quel momento dormivano, la verità, in fondo la sua vita non doveva valere poi così tanto.
Il mostro dalle zampe nere che le si era infilato nel petto durante la campagna di New Troy si era nutrito della sua tristezza ed era cresciuto, lievitato come una torta. Ora, come un'arpia, stava seduto sulla sua spalla e le ricordava bisbigliando, tutti i giorni, che era sola, brutta, non amata, dimenticabile. Rob ora aveva Shoshanah e il college, cosa avrebbe potuto farsene di una sorella grassa e codarda? Matthew? Matthew l'aveva mai più guardata da quando erano tornati da Panama? Chissà che fine aveva fatto il suo specchietto, per cui tanto aveva lavorato! E voleva forse parlare degli amici, quelli che non aveva, quelli che avevano sempre un amico più amico di lei con cui trascorrere il tempo, per cui potevano sacrificare anche un appuntamento con lei deciso settimane prima? Perfino Fabrice veniva raramente a farle visita, perché c'erano persone che erano sempre un po' più importanti di lei.
Sia si era stretta una mano alla gola, dove il taglietto che Callan le aveva procurato bruciava ancora, chiedendosi se sarebbe stato facile smettere di respirare. Aveva stretto poco a poco le dita, fino a quando le nocche non erano diventate bianche e lei cianotica, poi si era spaventata e aveva ripreso a piangere, prima di cadere nel suo incubo febbricitante.
Ora era lì, davanti alla sua porta spalancata, a fissare la neve che cadeva ancora lenta in fiocchi morbidi e ricchi, perfetti e unici.
Qanik.
Si ritrovò a sorridere, sola, persa in un mare di neve, mentre tutti i suoi fratelli e gli altri semidei si aggiravano spaventati in quella vasta distesa candida e pura.
Per tutti quello poteva essere l'inizio di un incubo. Per Sia era un segno che forse qualcuno ancora poteva volerle bene e quello era un segno del suo amore.
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Odissea del Nord
RandomA distanza di due anni dalla caduta di New Troy, grandi e piccole cose sono cambiate al Campo Mezzosangue: qualcuno si è innamorato, qualcun altro ha intrapreso la via del college, qualcun altro ancora ha deciso di assomigliare a Kurt Cobain, ma mor...