6. La baita dell'amicizia

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Erano passate due settimane dal giorno in cui Alison aveva avuto quell'incidente con il bicchiere e non avevo ancora avuto occasione di chiederle come mai avesse avuto quella reazione esagerata con la madre. Cioè sapevo che non erano proprio in buoni rapporti, ma in quel momento mi era sembrato che Moira volesse veramente aiutarla. Eppure lei l'aveva cacciata via in quel malo modo. Forse Alison aveva davvero qualcosa che non andava, ma l'amavo così tanto da vergognarmi di pensarlo. Lei era perfetta in tutti i sensi e non poteva essere possibile che ci fosse qualcosa di strano in lei.
E poi non volevo rovinare la nostra storia per uno stupido dubbio che avevo. Non sapevo ancora se stavamo insieme, ma non importava, in fondo la parola fidanzati non aveva nessun peso se l'amore c'era lo stesso.
«Andiamo sulle montagne?» mi chiese ad un tratto, mentre eravamo sul suo divano a guardare la televisione.
«Davvero? Adesso? Sono quasi le otto...» provai a dissuaderla, ma sapevo che non avrebbe mai funzionato.
«E qual è il problema? Abbiamo bevuto il caffè alle tre di mattina, non penso che sia così strano andare in montagna a quest'ora, no?» rispose lei, allegando il suo solito sorriso che usava per ottenere quello che voleva.
«E va bene, ma non facciamo troppo tardi, domani devo lavorare.» mi rassegnai, alzandomi dal divano.
Lei si mise giusto un paio di jeans e delle scarpe comode e poi uscimmo di casa. Avrei dovuto prendere la mia macchina, ma mi spiegò che c'era anche un'altra strada da fare a piedi.
Anche questo era insolito: ogni volta che le proponevo di prendere l'auto, trovava un modo per andare comunque senza prendere nessun mezzo. Avevo tantissime cose da chiederle ma non sapevo da dove iniziare.

Mentre stavamo camminando mi teneva per mano e sembrava volesse tirarmi come una valigia su per la salita scoscesa. Il tragitto non era proprio cortissimo, ma mi fidavo di lei. All'inizio c'era un tratto di autostrada dove passarono alcune macchine, poi si continuava su un sentiero di terra battuta, spesso interrotto da alcune radici di alberi che uscivano dal terreno. Con la mia sbadataggine ci inciampai più di una volta, ma ero giustificato perché al posto di guardare dove andavo, fissavo il capelli lunghi e mossi della ragazza che mi aveva rubato il cuore. Non glielo avevo ancora detto che ero innamorato di lei e segretamente speravo lo capisse da sola.
«Quanto manca?» chiesi con il fiatone.
«Siamo arrivati.» rispose, scostando un ramo e rivelando una radura verde, al cui centro c'era una piccola casetta di legno. Di fuori un tavolo e alcune sedie. Mi portò fino alla baita, se così si poteva chiamare, e spinse la porta che era già aperta.
«Ma di chi è questo posto?» chiesi, guardandomi intorno. Era tutto ben arredato e quello che mi colpì subito furono la moltitudine di disegni appesi alle pareti. Con gli acquerelli, con i pennarelli, a matita, di qualsiasi tipo.
«Di tutti e di nessuno. Quando ero piccola ci venivo con dei miei amici dell'orfanotrofio e abbiamo deciso che quello sarebbe stato per sempre il nostro rifugio. Sono sei anni che non ci vengo, volevo tornare qui, con te.» raccontò lei, mentre mi raggiungeva e mi abbracciava da dietro.
«Come mai? Sono speciale?» chiesi, facendo un sorriso, accarezzando le mani intrecciate intorno alla mia vita. «Sì, ma per un altro motivo.» disse lei con il viso sulla mia spalla.
«E quale sarebbe?» non capivo, ma speravo già in una risposta che confermasse i miei sentimenti.
«Arricchisci la bellezza di questo posto e di queste montagne.» rispose enigmatica, mentre sentii il mio cuore di vetro scheggiarsi. Mi scostai da lei il più delicatamente possibile da lei e la vidi rimanerci male. Non volevo ferirla, ma mi dava fastidio quello che aveva detto. In quelle due settimane le avevo dedicato me stesso, eppure non aveva capito perché lo facessi. «Forse dovremmo tornare, si sta facendo tardi.» dissi freddamente. Che cavolo stavo facendo? Mi stavo arrabbiando per una simile stupidaggine?
«Siamo appena arrivati. Stai qui con me, ti prego.» implorò lei, riprendendo la mia mano. Non volevo farlo, ma mi arresi. Non potevo di certo pretendere che si fosse innamorata di me in sole due settimane, come stupidamente avevo fatto io.

Alice Stok
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La curva del sorrisoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora