2. Caffè e incomprensioni

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Era quasi l'una e come al solito chiusi la porta d'ingresso del negozio e girai il cartello con scritto: Torno alle cinque! Però quel giorno ero talmente in ansia di rivederla, che dimenticai le chiavi sulla porta e il pezzo di carta rimase immutato con la scritta Aperto, prego!
Si poteva provare così tante farfalle nello stomaco per una ragazza? Non era di certo la prima con cui uscivo, eppure volevo fare bella figura.
Quando fui dentro le quattro mura di casa, cercai di darmi una regolata. Mi vestii con una semplice camicia bianca e delle bermuda, insieme a delle vecchie Vans un po' ingiallite. Tirai su i capelli e li arruffai un numero illimitato di volte, finché non trovai la curvatura che mi piaceva di più. Pulii gli occhiali tondeggianti e neri che irrompevano sulla mia faccia come una specie di maschera di carnevale e mi assicurai di non avere nulla tra i denti, anche se non avevo mangiato nulla. Avevo lo stomaco chiuso ed era esagerato, ma il pensiero di Alison mi faceva stare così. Incredibilmente bene e male allo stesso tempo.
Presi con me il portafoglio, per poter offrirle il caffè e fare il gentiluomo e poi uscii di casa.
Ero in largo anticipo, perché odiavo essere in ritardo... un'altra delle mie stupide fissazioni.
Entrai nella caffetteria e attesi il suo arrivo. Lessi tutte le insegne colorate di quel bar, molte volte, per quasi un ora, ma di lei nessuna traccia.
Guardai l'ora sul cellulare ed erano già le quattro meno venti. Stavo iniziando a pensare che mi avesse tirato pacco. In fondo la conoscevo da un giorno, non potevo sapere se fosse da lei fare ritardo.
«Vuole ordinare?» mi chiese una cameriera, gentilmente.
«No, aspetto una persona, grazie.» le dissi, cercando di essere convinto. Ma non lo ero per niente.
«Va bene, ripasso tra un po'.» rispose e si congedò, lasciandomi lì come un cretino ad aspettare.
E se si era dimenticata? Non era possibile, aveva dato lei luogo e ora.
Non mi era mai capitato di ricevere un bidone e infatti non sapevo che fare. Non avevo nemmeno il suo numero di telefono per contattarla.

Quando vennero le cinque, decisi di andarmene, perché ormai avevo capito che non sarebbe venuta. Ero triste e arrabbiato, mi sentivo uno scemo e volevo solo andarmene a casa. Mi era pure tornata la fame. Varcai la soglia della caffetteria e come alzai lo sguardo da terra vidi Alison, sulla soglia del negozio di libri che attendeva qualcosa.
«Alison!» la chiamai e lei si girò verso di me, facendo uno di quei suoi sorrisi enormi.
«Nathan!» rispose lei e a me passò immediatamente la rabbia che avevo dentro. Dimenticai il discorso che volevo farle e le sorrisi a mia volta come un ebete.
«Ti stavo aspettando alla caffetteria, come mai non sei venuta?» le chiesi gentilmente. Come aveva fatto a farmi scordare di essere incazzato con lei?
«Sono appena le cinque e dieci! Perché sei venuto così presto?» rispose lei, lasciandomi stupito ancora una volta.
«Presto? E quando avevi intenzione di prenderlo questo caffè?» le chiesi ridendo per non piangere. Non ci capivo più niente.
«Questa notte no? Quando sennò?» disse ovvia, aumentando la mia risata, che contagiò anche lei.
«Ma non sai che il bar è chiuso a quell'ora?» le domandai una volta che riuscii a smettere di ridere.
«Sì, infatti era solo un punto di ritrovo. Ti avrei portato a casa mia a berlo.» continuò, mentre sbatteva gli occhi con il suo modo impacciato.
«E come mai così tardi? Non dormi la notte?» le sistemai una ciocca di capelli dietro l'orecchio.
«A volte si e a volte no. Però il caffè di notte è la cosa più bella che si possa avere. Non credi?» mi chiese prendendo la mia mano, che aveva appena toccato i suoi capelli morbidi.
«Forse sì. Questa sarà la prima volta per me.» risposi, creando di nuovo quel sorriso sulle sue labbra.
«La prima delle tante, Than.» mi appellò quell'insolito soprannome.
«Than?» chiesi incuriosito.
«Sì, Nat era troppo scontato. Non ti piace?» domandò facendosi un po' seria.
«No, no, è bello.» la rassicurai, accarezzando la sua mano con il pollice «Entriamo?» lei chiesi poi, indicando con la testa il negozio dove lavoravo. Lei annuì con la testa, entusiasta, e sempre tenendola per mano la condussi dentro il negozio, tra l'odore dei libri e il suono della sua voce che raccontava le storie dei vecchi proprietari di ogni volume.

Alice Stok
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La curva del sorrisoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora