25. Quel figlio di...

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Una volta in macchina Alison decise di aprire la busta sigillata che conteneva la verità su suo padre.
Le stavo dando tutto il sostegno possibile mentre strappava l'etichetta bianca e tirava fuori i fogli.
Il documento recitava:
Test di paternità di Alison Morgansten, figlia di Moira Morgansten e Kevin Smith.
Lo avevo già sentito quel nome. Non mi ricordavo da dove, ma lo conoscevo.
Forse aveva a che fare con uno degli impiegati della compagnia di mio padre.
«Oh merda.» dissi ad alta voce.
«Cosa?» disse, girandosi verso di me.
«So chi è. Lavorava con mio padre ed erano diventati grandi amici, tanto che era il suo braccio destro. Ma dopo anni si è scoperto che rubava i soldi dall'azienda di mio papà ed è stato licenziato. Non ha sporto denuncia solo per non far troppo scalpore in città.» spiegai collegando tutti i pezzi.
«E dopo dove è andato? Ha cambiato città o è rimasto lì?» mi chiese lei.
«Non lo so, dobbiamo parlare con mio padre: torniamo a casa mia.» dissi risoluto e lei annuì. Misi in moto e partimmo.

Dopo qualche ora parcheggiai poco lontano da dove abitavo prima, scendemmo e camminammo veloci verso la destinazione.
Ero in ansia a rivedere i miei e non sapevo cosa aspettarmi di trovare una volta lì dentro. Non vedevo né sentivo i miei da anni perché li avevo tagliati fuori dalla mia vita per stare meglio e per loro sembrava esser stato lo stesso.
«Stai bene?» mi chiese ad un tratto Alison mentre ci trovavamo di fronte al portone.
«Sì, tutto apposto.» mentii e poi suonai.
«Chi è?» chiese una voce femminile che non sembrava per niente quella di mia madre.
«Nathan. Posso salire?» risposi.
«Sì, caro, avverto tuo padre, entra entra.» mi rispose e poi aprì.
Presi un respiro profondo, poi spinsi il portone ed entrammo.
Dopo tre piani di scale, perché non c'era l'ascensore, arrivai davanti alla fatidica porta, con il fiatone.
Anche se il mio cuore funzionava meglio di mesi prima, facevo ancora fatica a fare le scale soprattutto se ero in ansia già per conto mio.

Si aprì la porta in quel momento e apparve una signora giovane sulla quarantina solo con una vestaglia bordeaux sottile addosso e delle ciabatte. I capelli erano raccolti con un fermaglio e a vederla era molto bella.
«Ciao, piacere, io sono Rosalinda, la compagna di tuo padre.» mi porse la mano con un sorriso, ma non ricambiai. Non volevo passare troppo tempo in quel posto che già mi dava la nausea.
«Nathan. Quanto tempo. Come mai hai deciso di rifarti vivo ora?» disse mio padre che apparve dopo, dietro di lei. Aveva la sua solita aura di orgoglio intorno che mi aveva sempre dato fastidio. Ma era lui nel torto, non io.
«Devo parlarti di un tuo ex collega, Kevin Smith.» dissi subito, ricambiando lo stesso sguardo di sfida, una volta entrati in casa.
«Non mi presenti la tua amica prima? E poi, cosa vuoi sapere su quel figlio di puttana?» chiese lui, notando Alison. Le presi la mano e la strinsi per trattenere la rabbia.
«Non è una mia amica, è la mia fidanzata e si da il caso che quel figlio di puttana sia il suo padre biologico. Sai dove possa essere?» gli domandai mentre si accendeva un sigaro e iniziava a fumarlo. Lo odiavo a morte.
«Come non hai sentito? Si è impiccato qualche settimana fa. È stato condannato per frode fiscale in un'altra azienda di un mio vecchio amico. Si è fatto giustizia da solo lasciando questo mondo. Spero che bruci all'inferno.» disse con disprezzo. Alison trasalì, vicino a me. Io rimasi leggermente sconvolto, ma non ne diedi alcun segno visibile.
«Okay, grazie. Ora dobbiamo andare.» dissi dopo un po', vedendo che Ali si faceva strana lì di fianco a me.
«Aspettate, siete appena arrivati, sedetivi a prendere un caffè.» ci fermò lui, ma non ne avevo alcuna intenzione.
«No, papà, ce ne andiamo. Salve, Rosalinda.» saltai e non replicò nessuno dei due. Solo un misero ciao dalla donna di mio padre.

Uscimmo dalla casa e ci rifugiammo in macchina. A quel punto ci fu silenzio. La ragazza di fianco a me aveva lo sguardo perso nel vuoto. Non aveva detto nulla.
Prese il polso che aveva tagliato quella volta che aveva dimenticato le sue medicine e lo strinse.
Impallidì e poi iniziò a piangere. La invitai ad oltrepassare i comandi e il freno a mano per sedersi sulle mie gambe.
La abbracciai e aspettai che si calmasse.

Piangere fa bene, come aveva detto Eloise.

Alice Stok
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La curva del sorrisoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora