38. Semplicemente avanti

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E così feci. Andai semplicemente avanti. La mattina mi alzavo, andavo all'università, studiavo per diventare un chiururgo di successo, mi esercitavo un sacco anche a casa, facendo suture alle bucce di banana o pezzi di pollo con i kit che ci avevano dato all'inizio del corso, cercavo nel frattempo di smettere di fumare, ma sembrava sempre molto difficile, dopo che avevo iniziato, quasi cinque mesi prima, poi passavo il resto della giornata a lavorare in uno studio privato, insieme ad Eloise che voleva diventare ricercatrice per trovare una cura migliore alla leucemia, una cosa innovativa che non prevedesse cicli di chemioterapia devastanti.

Poi la sera cenavo insieme a mio zio e la sua compagna per non stare sempre da solo e prima di tornare a casa, passavo sempre a vedere come stesse Moira dopo la perdita. Sembrava invecchiare di dieci anni ogni volta che l'andavo a trovare.
Cercavo di parlarle, ma lei non mi rispondeva. Fissava sempre fuori dalla finestra, seduta sulla poltrona consumata nella sua camera e mangiava di rado.

Era molto triste vederla ridotta in quello stato, dopo aver perso l'unica figlia che aveva, in modo così silenzioso che nemmeno se n'era accorta.
Infatti non le avevo mai raccontato delle crisi di Alison. Un po' me ne pentivo, ma era solo per non farla preoccupare.
Anche perché dopo quella volta sulle montagne, dove aveva parlato del fatto di andarsene, era stato come avere uno spoiler sulla fine di un libro. Sapevo già infondo che se ne sarebbe andata per sempre, ma speravo che quel momento non arrivasse mai.
Mentre la sua povera madre non aveva avuto nessun indizio sul suo desiderio di mettere fine alla sua vita. Chissà lei cosa avrebbe fatto. Se per ipotesi non mi avesse mai conosciuto: avrebbe mai sospettato che volesse suicidarsi?
Probabilmente avrebbe sentito qualcosa dentro perché le mamme hanno un sesto senso e capiscono sempre se qualcosa non va nella proprio figlia.

Quando tornavo a casa con la macchina, entravo dentro e ogni sera sentivo il suo profumo ovunque, così mi mettevo a fumare una sigaretta alla finestra della cucina per coprire quell'odore di ricordi.

Poi la mattina dopo ricominciava tutto da capo. Insomma ero ricaduto nella routine. Era una sorta di protezione la mia: facevo tutto in automatico, senza pensarci troppo e cercavo sempre di avere qualcosa da fare, per evitare di trovarmi in silenzio con la mente libera e i pensieri che avevano ingresso gratuito.

Era anche successo qualche volta e avevo per lo più pianto da solo, senza essere visto da nessuno, alle due di notte.
Poi solitamente mi mettevo i guanti, prendevo il solito kit e mi mettevo a eseguire incisioni precise su qualsiasi cosa. Mi riusciva a calmare e senza accorgermene finivo di piangere.

Infine rimettevo tutto in ordine e tornavo a dormire, abbracciando il cuscino e sognando Alison.
La vedevo ogni notte e sembrava sempre così reale, la riuscivo a toccare, baciare e dirle quanto l'amavo e quanto mi mancava. Lei rispondeva con la stessa voce che mi ricordavo di lei ed era bellissimo poterla sentire almeno nei miei sogni.

Praticamente vivevo la favola solo quando mi addormentavo. Poi al sorgere del sole suonava l'ultimo rintocco, Cenerentola perdeva la scarpetta e la carrozza tornava zucca.
Andava sempre così e questa era quella che chiamavo vivere il sogno, perché la realtà fa schifo.

La curva del sorrisoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora