Capitolo quindici ~ Di ritardi e scenate

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Quando la sveglia suonò alle sette meno un quarto del mattino, Amelia era già sveglia da un paio di ore.
Era stata una notte infernale in cui nel poco tempo in cui era stata in grado di dormire aveva avuto comunque il sonno tormentato da gelidi occhi grigio piombo che la fissavano implacabili, alternati da mani tra i capelli che la risvegliavano sudata.
Si sentiva uno straccio.
Non aveva nemmeno voglia di alzarsi per andare a scuola, non se avrebbe potuto rivedere il colpevole di quel tormento.
La vera colpevole però sono io, pensava immersa nelle coperte fino ai capelli.
Sì, perché era stata lei a baciarlo, la sera prima; era anche vero che lui non si era di certo tirato indietro nel momento, ma si vedeva che non avesse la reale intenzione di cedere a tutto quello. Un altro elemento importante era che lui era stato il primo a baciarla, quella volta in discoteca, ma l'alcol ingerito aveva avuto la sua forte influenza in quell'azione.
Insomma, era convinta che la maggior parte della colpa fosse da attribuire a lei – lei era la ragazzina, lei aveva deciso di cedere a quella cotta infantile, lei gli era saltata addosso.
Sotto le coperte, gli occhi le si fecero lucidi e si morse un labbro per impedirsi di piangere – l'aveva già fatto in abbondanza la sera prima, dopo essersi rinchiusa in camera usando la scusa di non sentirsi bene a causa del freddo preso.
Devo andare a scuola...
La seconda sveglia, quella delle sette meno cinque, prese a suonare forsennata acuendole il mal di testa causato dalla notte insonne. La spense con un gesto secco, infastidito, e con uno sbuffo spostò le coperte percependo la pelle d'oca invaderla in un brivido.
Ciondolando arrivò in bagno e ciò che vide allo specchio la fece spaventare: il viso era ancora più pallido del solito, gli occhi scuri erano ancora più accentuati dai lividi violacei segni della notte insonne, i capelli erano una massa informe – in poche parole, sembrava una spiritata.
Si lasciò andare a una smorfia disgustata mentre osservava lo scempio del proprio aspetto e, senza volersi torturare ulteriormente, volò in doccia per togliersi la stanchezza soffocante che però non era stata sufficiente per dormire.
Doccia, vestiti e trucchi vari furono in grado di farle assumere un aspetto quanto meno passabile – le occhiaie erano ancora un po' visibili, ma il correttore aveva eliminato l'aspetto da "vittima di pestaggi vari" e i capelli erano quanto meno tenuti graziosamente da una forcina.
In cucina arrivava il vero problema: sua madre che vagava preparando la colazione, pronta già per andare a lavoro ma con l'occhio lungo quanto quello di una lince.
«Buongiorno tesoro!» l'apostrofò allegra – si drogava per essere così di prima mattina? – poi però la osservò per bene «Stai bene?»
Amelia fece una smorfia, un vago cenno con la mano e poi prese la tazza di caffè già pronta sul tavolo, aggiungendosene altro dalla caffettiera ancora fumante.
«Sembra tu non abbia chiuso occhio.» continuò la donna insistente.
Perché infatti è così, pensò tra sé Amelia.
«Sonno movimentato.» mugugnò però e rituffò il naso nella tazza di caffè ben zuccherato, decisa a non parlare più del necessario. La madre dovette capire l'antifona e decise di non insistere – qualcosa però diceva ad Amelia che ci sarebbe stato un interrogatorio in un momento successivo e pregò che fosse il più tardi possibile.
Suo padre era ancora a letto, per fortuna, e non dovette sorbirsi anche le sue occhiate, e sempre per fortuna Serena scappò dopo poco borbottando qualcosa sull'ufficio che richiedeva la sua presenza prima del previsto.
Si ritrovò da sola ben presto e non si accorse dell'orario fino a quando non le cadde l'occhio sull'orologio. Le otto e due minuti.
«Cazzo!»
L'urlo le partì in automatico e maledicendo la notte insonne che l'aveva portata a vegetare sul tavolo della colazione salì di corsa per le scale, riuscendo a lavarsi i denti, prendere cappotto e libri di scuola in cinque minuti scarsi, per poi precipitarsi fuori di casa mentre notava di sfuggita Davide che si trascinava verso il bagno.
Ma si sa, la sfiga ama prendersi cura dei suoi protetti, per questo fece ripartire il pullman proprio nel momento in cui Amelia arrivò alla fermata.
Non bastarono insulti, improperi e bestemmie varie. Ciao ciao cara Amelia.
«Vaffanculo!» sibilò infuriata – non bastava la notte insonne, anche il ritardo a scuola.
Cazzo, poi alla prima c'è...
Sbiancò al pensiero.
«Oh, merda.»
Già, alla prima ora c'era il caro Angelis.
Che cazzo faccio? Se arrivo in ritardo ne approfitterà per ammazzarmi, se salto la prima ora e mi vede arrivare faccio la figura della scema... Cazzo, cazzo, cazzo!
Le decisioni, quelle difficili.
La scelta venne presa a malincuore e nel giro di tre secondi si ritrovò a chiamare Daniele quasi rompendo il touch del cellulare per quanta forza ci mise nel premere lo schermo.
«Ho perso il pullman, ti prego vieni a prendermi.» praticamente strillò e piagnucolò assieme, assordando il povero ragazzo che scoppiò a ridere.
«Arrivo subito, sei alla fermata?»
«Sì.» pigolò ancora disperata.
«Ok, a fra poco
E fu davvero "poco": tre minuti più tardi Daniele arrivò inchiodando la propria moto di fronte alla ragazza, le lanciò il casco che lei colse al volo e abbassò la visiera del proprio.
«Muoviti, siamo in ritardo. Angelis ci sega questa volta.»
Non ci fu bisogno di ripeterlo più volte: Amelia era già arrampicata sulla moto, il casco in testa e lo zaino ben stretto a sé. Daniele ripartì dopo essersi assicurato che la ragazza fosse ben ferma dietro di lui e Amelia si ritrovò per un attimo sbalzata all'indietro.
Il tragitto fu quanto mai "accidentato": vecchie che attraversavano la strada un passo al minuto, insulti dai guidatori a cui veniva tagliata la strada e i cari vecchi semafori oltrepassati nel secondo in cui scattava il rosso.
Nonostante tutto, arrivarono a scuola sani e salvi con un minuto di anticipo, insufficiente per parcheggiare, togliere i caschi e fissarli alla moto, correre per il cortile insieme agli ultimi ritardatari ed arrivare in classe in orario.
La sfiga infatti aveva riservato loro un ultimo regalo.
«La porta è chiusa.» sussurrò agghiacciata Amelia.
La porta chiusa equivaleva al prof già arrivato. Il prof già arrivato equivaleva a un ritardo nel registro. E se il professore in questione era Angelis...
«Io non busso!»
«Io non busso!»
La frase venne detta quasi in sincrono dai due. Quasi perché, effettivamente, Daniele era stato più veloce.
Il riccio allungò un sorriso affilato e molto poco gentile.
«Troppo tardi, tesoro, prego.» cinguettò allegro.
Amelia diventò ancora più bianca di quanto già non fosse da quella mattina.
«Dani, ti prego, entra tu per primo.» pigolò disperata. Daniele fece di no con la testa.
«Col cazzo. Con te sarà di sicuro più gentile.»
Sì, dopo che l'ho baciato lo sarà senz'altro, commentò sarcastica la mora.
Daniele prese a fissarla senza dire nulla, ma il suo sguardo era molto chiaro: "non sarò io a bussare".
Maledizione.
Il respiro profondo che prese fu pesante quanto un macigno e le sembrò come quella notte: una bolla di totale ansia e disperazione – perché l'aveva baciato, perché?!
Doveva smetterla di compiere certe stronzate, soprattutto se la portavano a situazioni del genere – e situazioni del genere comportavano un grosso problema nella sua vita scolastica e anche nei suoi voti.
«Più tardiamo peggio sarà.» commentò dalle retrovie Daniele, ma Amelia era troppo concentrata sulla propria tempesta interiore per ascoltarlo e continuò a scervellarsi cercando un modo per sfuggire a quell'enorme mattinata di merda.
Non le vennero idee se non quella di fingersi morta – poi però ai suoi sarebbe preso un colpo, no, meglio evitare.
Un profondo sospiro da condannata a morte e si avvicinò alla porta, per poi sfiorarla con il pugno chiuso e tremare dalla paura.
«Non ti ricordi come si bussa?»
«Vaffanculo, Daniele.» fu la pronta risposta sibilata.
Basta, o la va, o la spacca, pensò sentendosi tanto la protagonista di chissà quale mission impossible. In quel caso "impossible" sarebbe stata la sua promozione.
Le nocche si poggiarono sulla porta e il sordo bussare equivalse alla campana a morto, almeno per Amelia – per Daniele non fu tanto diverso, ma almeno lui non aveva avuto un têtê-à-têtê con il proprio professore.
Per quanto sapesse di non poter sperare che non ci fosse nessuno in aula, sentire rispondere "avanti" da dietro la porta fu come ricevere un pugno in faccia e la mano corse alla maniglia con la stessa sofferenza che avrebbe provato uccidendo un cucciolo di foca.
«Permesso...» pigolò con aria spaventata mentre apriva la porta e faceva qualche passo dentro – dietro di lei c'era sempre Daniele che la seguiva, unica consolazione in quel mare di disperazione in cui si trovava.
Si ritrovò ben presto ventidue paia di occhi puntati addosso, più un altro paio che avrebbe voluto non vedere per niente. Questi ultimi erano molto grigi, molto spaventosi e molto seccati.
«Moretti, Longobardi, quale onore.»
Il tono freddo e sarcastico allo stesso tempo colpì la mora peggio di uno schiaffo e si ritrovò a lanciare uno sguardo terrorizzato al professor Angelis che, seduto composto di fronte alla cattedra, teneva in mano una penna e giocherellava distratto con una pagina del registro aperto di fronte a sé.
Perché l'ho baciato?
Perché sei dannatamente attratta da lui, ecco perché, cara Amelia. Solo che ogni gesto ha delle conseguenze, e in questo caso ci sono un paio di occhi gelidi e una nota sul registro per...
«Sei minuti di ritardo.» commentò il professore atono.
Amelia, troppo a disagio, si voltò verso il resto della classe che la fissava con compassione – nessuno avrebbe avuto il coraggio di prenderla in giro, né lei né Daniele, per il semplice fatto che sarebbe stato da bastardi ridere sulla stronzaggine di Angelis che infieriva su dei poveri conigli spaventati. Che poi, Daniele sembrava anche troppo tranquillo per una situazione del genere.
«Scusi, c'era traffico.» intervenne il ragazzo proprio in quel momento.
Angelis gli scoccò un'occhiata indifferente.
«E dovrebbe importarmi? Esce prima da casa, la prossima volta.» fu la risposta.
Amelia sentiva il proprio cuore battere come dopo una corsa incessante di troppi chilometri e riuscì a racimolare il coraggio di guardare il professore negli occhi.
Pessima idea.
Lo osservò e la sua mente le sbatté in faccia i ricordi della sera prima: i suoi occhi velati dopo il bacio, i capelli scompigliati, il profumo intossicante, le labbra lucide...
«Non è colpa sua, mi è venuto a prendere perché ho perso l'autobus.» si ritrovò a dire – almeno, in tutto quel casino, cercava di risparmiare Daniele.
Quando Angelis – Alessandro – spostò lo sguardo su di lei fu anche peggio: si sentì andare a fuoco e non nel senso preferibile del termine.
«Pare che sia particolarmente brava a creare problemi agli altri.» commentò l'uomo.
Se tutti gli astanti presero quella frase come una semplice uscita infelice, Amelia scorse tutto il doppio significato che nascondeva e impallidì ancora di più.
Il suo viso si trasfigurò in una statua impassibile mentre metabolizzava ancora la frase appena ricevuta.
Non l'ha detto davvero.
E invece sì. L'aveva detto, e doveva intenderlo sul serio per come la guardò – un misto di freddezza, indifferenza e fastidio.
Non poteva stare zitta. Non poteva farsi mettere i piedi in testa in quel modo. Non poteva, anche se c'era tutta la classe lì ad assistere alla scena, anche se in quel caso sarebbe stato rispondere male a un professore, anche se avrebbe potuto ricevere una sospensione.
«Forse sarò brava a creare problemi agli altri, è vero...» iniziò, mentre un tiepido e tremulo sorriso le tingeva il volto «...ma almeno, non mi approfitto delle ragazzine per divertirmi e giocare con loro solo quando mi va.»
A quelle parole seguì un velo di bisbigli – i compagni di classe erano confusi dalle sue parole, l'unico a capire qualcosa fu Daniele che si avvicinò a lei e la prese per il polso.
«Amelia...» sussurrò il ragazzo, intuendo qualcosa.
Angelis, nel frattempo, aveva assunto un'espressione sconvolta che aveva cercato in fretta di mascherare con una facciata di indifferenza che però non funzionò con la mora.
Un secondo e l'uomo scattò in piedi, facendo raschiare la sedia sul pavimento e zittendo tutta la classe.
Amelia perse un battito.
Cosa ho fatto...
Cosa aveva fatto? La sera prima, in quello stesso momento, il giorno delle ripetizioni... Cosa aveva fatto per tutto quel tempo? Si era illusa, o aveva davvero colto dei messaggi?
L'uomo si diresse verso di lei in silenzio e si bloccò a meno di un metro; la sovrastava con la propria altezza, gli occhi erano perforanti ma Amelia si costrinse a non abbassare lo sguardo nemmeno per un istante.
No, non voleva più mostrarsi debole – non voleva più mostrarsi una ragazzina.
«Vada a sedersi. Non ho ancora fatto l'appello, quindi non le segnerò il ritardo. Un'altra scena del genere e mi assicurerò che non passi l'anno.»
La condanna era stata emessa e fu più gentile di quanto tutti avrebbero potuto credere.
Amelia non ringraziò – perché avrebbe dovuto, poi? Era lui che l'aveva spinta a comportarsi così – semplicemente gli lanciò un ultimo sguardo prima di dirigersi verso il banco in totale silenzio, seguita da Daniele che le aveva lasciato il polso indeciso.
Quando si sedette, Alessandro aveva già preso il proprio posto alla cattedra e aveva già impugnato la penna.
Nessuno fiatò più in quella lezione e Amelia poté tormentarsi per tutto il tempo con quella voce che la puniva col solo suono, mentre nella sua testa non poteva fare a meno che biasimare se stessa, Alessandro e le proprie scelte.

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