Dodici.

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Era seduto in quella sedia verde acqua da almeno due ore. Da quando aveva messo piede lì non si era mosso di un centimetro, tant'è che il sedere gli faceva male e le gambe si erano come paralizzate.
Ogni tanto qualche paziente passeggiava fino alla sala d'attesa e gli rivolgeva uno sguardo seguito da un sorriso a cui prontamente non rispondeva.

Non sapeva bene quanti litri di lacrime avesse versato ma gli occhi gli bruciavano e la saliva gli mancava persino per inumidirsi le labbra.

Era stato avvisato per primo dall'ambulanza comunicandogli che il suo amico prima che svenisse per aver perso troppo sangue chiamava insistentemente il suo nome mentre cercava di soffocare i gemiti di dolore sdraiato su una banale barella ospedaliera.

Non gli fu spiegato come l'incidente l'avesse ridotto perché da quando aveva messo piede in quell'ospedale a Roma dopo ore di viaggio in cui probabilmente aveva preso più multe che altro, nessun medico si era degnato di dargli uno straccio di notizia delle sue condizioni.

Sapeva solo che fosse vivo, per fortuna.

Non sapeva se fosse cosciente, se avesse subito un'operazione o se fosse stato costretto per tutta la vita in una sedia a rotelle.

In un incidente stradale non sai mai cosa può succedere e lui era terrorizzato al pensiero che Fabrizio potesse non vederlo più.

Il viaggio era stato straziante, condiviso solo con un sentimento: la paura.

Aveva paura di averlo perso per sempre, paura di non poter vedere più i suoi occhi luminosi e belli come il mare.

Paura di non poter più ascoltare la sua voce roca e dolce allo stesso tempo.

Paura di non poter più vedere quel sorriso pazzesco che dedicava a poche persone.

Paura di non poter più mettere la mano tra i suoi capelli perennemente arruffati.

Paura di non potersi più rifugiare in un suo abbraccio, in una sua carezza, in un suo bacio.

«Ermal!» una voce che aveva sentito solo altre quattro o cinque volte gli fece alzare la testa svogliatamente mostrando il volto ricoperto dalle lacrime.

Non si vergognava a farsi vedere in quelle condizioni. Era consapevole del fatto che se Fabrizio si trovava lì era solo colpa sua.

I sensi di colpa lo stavano divorando lentamente e quelle ore passate da solo in ospedale non facevano altro che alimentare il suo pensiero.

Cosa poteva farci?
Non poteva rimediare ora che gli aveva fatto del male, ora che non poteva più tornare sui suoi passi.
Te lo meriti si ripeteva mentre le lacrime scendevano, ti meriti di soffrire.

Era suo quel dolore.
Si era pugnalato da solo, con le sue stesse mani. Inutile piangersi addosso, inutile chiedere scusa, inutile qualsiasi tentativo di rimediare.

«Cosa è successo? Ho fatto il possibile per venire subito, i bambini sono già a scuola.» Giada aveva il fiatone ed era agitata, lo si notava a primo impatto.
Il tono di voce si era leggermente alzato quando aveva visto gli occhi del riccio e per un momento, anche lei, aveva pensato al peggio.

Ermal si limitava a non rispondere, l'aveva guardata come a dire che non sapeva niente, ma non aveva nessuna intenzione di parlare.

Il suo telefono prese nuovamente a squillare come da due ore ma lui lo ignorò completamente mentre lo sguardo di Giada cadde sullo schermo illuminato.

«Non hai avvisato Silvia?» chiese incredula leggendo il nome lampeggiare e lui scosse la testa, totalmente indifferente.

Giada bisbigliò un «Tu sei pazzo.» prima di prendere il suo telefono e chiedergli di poter rispondere, almeno qualcuno doveva avvisarla che il suo futuro marito non si sarebbe presentato al matrimonio.

Non c'è niente di più fragile di una promessa. «MetaMoro»Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora