Prologo

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Non potevo credere che lo avesse fatto.
Non potevo credere fosse successo a me.
Non potevo credere di essere stata abbandonata lì, addormentata, stesa ai piedi dell'altare, sotto agli occhi di amici e parenti, sotto agli occhi aridi di un cristo in croce.

Singhiozzavo. Non avevo più forza e voce per farlo, ma continuavo a singhiozzare. Mi faceva male la gola e la pressione elevata all'interno del mio cranio rendeva i miei bulbi oculari gonfi, rossi e pruriginosi.

Volevo solo che il dolore finisse, volevo che qualcuno lo facesse smettere!

Afferrai l'ultimo calice della preziosa collezione di stoviglie – una piccola parte di tutti i regali che stavo distruggendo – e lo sollevai all'altezza della mia bocca schiumosa. Mi limitai a osservarlo, a scrutare quella trasparenza così volgare, quelle curve eleganti che non sarebbero mai state sfiorate da labbra umide e assetate. Non volevo romperlo, non ancora, ma sapevo che nessun tiepido fiato avrebbe mai appannato quel cristallo. Mi limitai a minacciarlo, con le mie grida e le mie lacrime, facendogli capire che non lo avrei fatto in quel momento, no, ma che presto o tardi lo avrei stretto tra le dita fino a decapitarlo, proprio come avevo fatto con tutti gli altri suoi compagni.

Ero stata lasciata all'altare. Ed era una cosa che non riuscivo a concepire, accettare, capire.

Perché mi aveva abbandonata così?

Non potevo credere che Filippo fosse arrivato a tanto. Non potevo credere che fosse fuggito via dalla chiesa, approfittando del sonno profondo nel quale ero caduta, a pochi metri da lui.

Non potevo credere di essere rimasta sola, non il giorno delle mie nozze: sarebbe dovuto essere il giorno più bello della mia vita – non era così? Non era così che la gente tanto millantava quel giorno speciale?

Perché la giornata più bella si era trasformata nella giornata più brutta?

Mi faceva pena la fragilità del calice di cristallo che ancora stringevo tra le mani. Mi faceva pena il suo scintillio: un'inutile difesa contro la mia rabbia e il mio rimpianto. Come le spine verdastre di una rosa appena sbocciata, nessuna falsa adulazione l'avrebbe salvato da me.

Io amavo Filippo, l'avevo amato con tutte le mie forze, e camminare verso di lui, stretta a mio padre, mi era sembrato tanto bello da farmi credere di star vivendo un sogno. E probabilmente fu con quell'idea in testa che avevo mosso il passo fatale.

La luce nelle mie pupille si era spenta, io ero caduta a terra e mi ero accartocciata su me stessa, riversandomi nel mio stesso abito bianco come polvere. Nulla avrebbe potuto aiutarmi: non la presa malferma di mio padre, non le decine e decine di occhi sbarrati, intenti a seguire il mio tragico svenire.

Nessuno si sarebbe aspettato una cosa del genere, non il giorno del mio matrimonio. Era stato come se, per dodici maledette ore, tutti si fossero convinti di qualcosa di impossibile. Anche io mi ero lasciata influenzare dall'idea e avevo davvero creduto che Morfeo mi avrebbe risparmiata. Ci avevo davvero sperato, che il mondo dei sogni si sarebbe messo in disparte almeno per un po', giusto il tempo di arrivare all'altare, di recitare le promesse, di baciare il mio sposo, di essere felice, di sentirmi normale.

Vane e ridicole illusioni, le mie e quelle di tutti gli invitati, quelle di Filippo, quelle di mio padre, quelle di mia madre. Il sonno aveva rimarcato il proprio territorio, aveva solamente ribadito come fossi sua, come lo sarei stata per sempre. Mi aveva semplicemente afferrata e mi aveva impedito persino di gridare, di chiamare aiuto e di dirlo che mi stava rapendo. Mi aveva tappato la bocca con la sua mano squamata e mi aveva tirata sotto il pelo dell'acqua. Ed ero caduta in un sonno profondo, proprio a qualche metro dall'altare, quasi ai piedi di Filippo, come se gli avessi voluto chiedere tacitamente perdono.

Al mio risveglio, il mio promesso sposo era fuggito.

A nulla erano valse le consolazioni, a nulla erano valse le parole di conforto, perché nessuno avrebbe mai potuto cancellare i segni delle lacrime con le quali mia madre aveva provato a destarmi, per avvertirmi che il mio futuro stava scappando, correndo via nelle sue scarpe lucide e nere.

Una volta in piedi, traballante sui tacchi bianchi, ero rimasta a fissare il punto esatto in cui un attimo prima di addormentarmi avevo guardato Filippo. Come sottofondo, invece della marcia nuziale, il rumore del mio cuore che si riduceva in mille pezzi.

Strinsi ancora e ancora l'ultimo sciocco, ridicolo calice di cristallo e, con un colpo secco, infransi la sua testa sull'angolo del gradino di marmo bianco.

Il bicchiere si distrusse, raggiungendo i cadaveri di tutti quelli venuti prima di lui. Piatti di porcellana, coppe da gelato, brocche in vetro di murano, lenzuola, asciugamani,... tutto era passato per le mie mani e tutto era stato distrutto, strappato, morso, gettato. Tutti i regali della lista di nozze, ridotti in polvere, con me.

Nulla era rimasto in piedi, nulla che continuasse a urlarmi il suo nome, il suo ricordo, la ferita scottante che mi aveva procurato nel petto.

Con tutta la foga che trovai in corpo, afferrai il corpetto del mio vestito da sposa e tirai. Affondai le mani sulle mie costole, incastrando le dita nelle fessure di pizzo avorio, e cercai di scomporre ogni fibra di tessuto, di sezionare l'abito e ridurlo in pezzi.

Ma di nuovo, più misericordioso che crudele, questa volta, Morfeo bussò alla soglia delle mie palpebre, costringendomi a chiuderle, piuttosto che aprirle.

Senza più forze, senza più voce e senza più lacrime, semplicemente morta come una lampadina fulminata, caddi di nuovo nel mio familiare sonno profondo, avvolta in un vestito da sposa, che non mi aveva mai vista raggiungere l'altare.

Senza più forze, senza più voce e senza più lacrime, semplicemente morta come una lampadina fulminata, caddi di nuovo nel mio familiare sonno profondo, avvolta in un vestito da sposa, che non mi aveva mai vista raggiungere l'altare

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La Maledizione di chi Rimpiange [Completa]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora