2. La narcolessia

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Con gli anni avevo iniziato a credere di avere uno stock di sogni limitati. Non so, una cinquantina di scene, drammi, episodi che nel regno del sonno si ripetevano all'infinito da ventinove anni.

Era come se nella mia testa ci fosse uno schedario striminzito, dal quale Morfeo sceglieva una cartella a caso, per infilarmela a forza nel cervello mentre dormivo.

Lo pensavo perché i miei sogni erano ripetitivi a livello nauseante.

In particolare, in quel momento, durante quel pisolino schiacciato sul divano della mia prigione, viaggiai indietro nel tempo fino al giorno in cui avevo scoperto della mia malattia. Per l'ennesima volta.

I miei erano sogni lucidi. Significava che all'interno della realtà onirica non solo ero cosciente di star dormendo e sognando, ma ero anche in grado di muovermi a mio piacimento in quella dimensione alternativa. Potevo controllare e modificare i miei sogni: in minima parte, certo, ma ne ero comunque la padrona.

Quella scoperta – appresa in età adolescenziale – aveva ben presto perso il suo fascino. Ovvio, era interessante manipolare quell'ammasso di ricordi e immagini che la mia testa proiettava sulle mie palpebre, ma finii ben presto per stancarmene.

Non c'era niente di bello e niente di divertente. Era solamente più snervante del normale e avevo bisogno di tutto, ma non di affaticarmi ulteriormente. Solitamente mi limitavo a lasciare che la realtà attorno a me scorresse lenta e senza interruzioni, in attesa dell'ora di svegliarsi: erano poche le volte che mi degnavo di mettere i piedi a terra e cambiare il corso degli eventi.

Durante quel sogno non avrei fatto eccezioni. Lo conoscevo a memoria, la mia mente non aveva fatto altro che riavvolgere il suo nastro cinematografico migliaia di volte, nel corso della mia vita. Me lo aveva riproposto quasi sempre senza storpiature, lasciandolo lindo e pulito. Straziante e in bianco e nero, ma scintillante e cristallino, come se lo avessi vissuto solamente un'ora prima.

In realtà, però, quel ricordo risaliva a un anno non ben precisato della mia infanzia. E, quando serrai le palpebre per riaprirle dall'altra parte, mi ritrovai nei panni di una Beatrice molto bambina e molto poco adulta.

Ero seduta a un banco di scuola, pieno di piccole firme e disegnini. Era il mio banco. Sapevo di stare dormendo, sapevo di star semplicemente sognando, eppure era sempre tutto così realistico da farmi venire la nausea.

Guardavo la lavagna, la professoressa di matematica stava spiegando le potenze, ma i numeri mi apparivano così sfocati e incomprensibili che neppure la mia mente da laureata riuscì a capirci qualcosa.

Sentivo gli occhi pesanti e gonfi, un'irrefrenabile e intensissima sonnolenza soffocarmi.

Scossi la testa, cercando di rimanere sveglia, inutilmente. Avrei voluto dire alla me bambina che andava tutto bene, che era normale perdere quella battaglia, che era inutile anche provarci. Ma lei – io – insisteva a colpirsi il viso con piccoli buffetti preoccupati.

Cosa mi stava succedendo? Era la terza, forse la quarta volta in poche settimane che mi sentivo in quel modo. La professoressa aveva richiesto un colloquio con mia madre, per dirle che non mi comportavo bene a scuola, per dirle che ero una ragazzina pigra, che passavo le ore a fissare il vuoto con aria sonnacchiosa, che a ricreazione non avevo mai voglia di interagire con i miei compagni. Mia madre mi aveva sgridata, mi aveva imposto di provare a dormire di più la notte, e io ci avevo provato, ma era stato inutile, inutile! Le palpebre continuavano a pesarmi sul viso e io continuavo ad avere un sonno incontrollabile.

E infatti, come era previsto che andasse, mi addormentai, sbattendo il viso sul banco.

A quel punto il sogno si incrinò e saltò a piedi pari alla scena successiva.
Quando le immagini smisero di contorcersi e riuscii a riconoscere il luogo in cui mi trovavo, emisi un sospiro dimesso e sconsolato.
Non di nuovo.

La Maledizione di chi Rimpiange [Completa]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora