12. Son desta

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Guardai l'orologio, poi il mio cellulare. Ascoltai il mio stomaco brontolare e il mio cuore scalpitare. Avevo ancora pochi secondi per prendere una decisione sensata e la cosa mi sembrava quantomeno impossibile.

Se da una parte agognavo il pranzo che Filippo mi doveva star portando in quel momento esatto, dall'altra il chiavistello della porta mi reclamava con piacevole insistenza.

Mi attorcigliai le dita per cinque secondi contati, fino a quando non sentii la portiera di una macchina sbattere nelle vicinanze: il suono era venuto da fuori.

Non ero esattamente solita uscire fuori sulla veranda: guardare troppo intensamente il cielo e lanciare anche solo un'occhiata al mondo esterno mi ricordava tutto quello che avevo perso. Ad aver potuto, mi sarebbe piaciuto sprangare porte e finestre, rinchiudermi lì per sempre, in maniera assoluta. Non avrei voluto far entrare neanche un filo di luce, annullarmi insieme al buio, nell'alienante maledizione di una prigionia autoimposta. Avrei preferito stare in una gabbia come quella del Rimpianto, con una chiave all'esterno e non all'interno, con nessuna possibilità – e quindi voglia – di fuga, schiava degli altri, costretta alla reclusione. Se qualcuno mi avesse messa in catene, sarebbe stato meno doloroso: il fatto che fossi stata io ad attaccarmi un guinzaglio d'acciaio al collo, invece, era solo triste e orribilmente drammatico.

Per quella singola occasione, però, decisi di fare un'eccezione e di affacciarmi fuori dalla veranda. Feci scorrere la porta gracidante e, tentennante, mi sporsi all'esterno. Cercai di ignorare le numerose piante che una volta avevano abitato quell'anfratto: Filippo era stato un grande amante di quei vegetali, eppure me li aveva lasciati lì, quando era venuto a prendere le sue cose per andarsene. Forse aveva sperato di lasciarmi un suo ricordo in quella casa, ma io me le ero dimenticate, o forse avevo preferito dimenticarle, e le avevo ammazzate. Senza acqua e attenzioni, al momento di loro non restava altro che scheletrici cadaveri.

E non mi interessava.

Aprii la finestra quel poco per guardare verso il basso e cercare l'origine di quel suono.Fu difficile identificare l'auto di Filippo, perché di macchine parcheggiate in quella via ce n'erano davvero troppe, ma fu la presenza del ragazzo al cancello del giardino a farmi capire che era finalmente arrivato.

Lo vidi traccheggiare con le chiavi e tenere sotto braccio un sacchetto di carta. Non sembrava il solito sacchetto di cibo cinese e il fatto che – per la prima volta in quell'ultimo anno – avesse deciso di comprare del cibo diverso, me lo fece maledire quindici volte in più.

Mi soffermai qualche secondo ancora a osservarlo. Come Raperonzolo dalla sua torre, era quasi straniante ritrovarmi a guardarlo dall'alto, sospirando e vedendolo irraggiungibile sotto qualsiasi aspetto.

Cercai di riscuotermi in fretta, per evitare di perdere tempo, ma distogliere lo sguardo e allontanarmi dalla veranda fu doloroso.

Andai a chiudere il chiavistello della porta: in quel modo non sarebbe potuto entrare, neanche avendo le chiavi. E attesi.

Non ci volle molto perché sentissi un leggero graffiare nella serratura, i meccanismi scattare e la porta aprirsi, bloccandosi immediatamente dopo con un colpo secco.

– Ma che cazzo! – lo sentii digrignare dall'altro lato.

Io mi ero nascosta nell'angolo opposto della porta, dove non mi avrebbe potuta vedere in nessun modo, e cercai di trattenere il respiro.

– Bea! Perché hai chiuso la porta?

Fu difficile non rispondere.

– Bea, mi senti?

Il suo tono iniziava ad allarmarsi.

– Dio, che palle...

Seguirono attimi di silenzio, interrotti solo dalle mie palpitazioni irregolari.

La Maledizione di chi Rimpiange [Completa]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora