16. Silvia

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Ero nel mio ufficio. O meglio, stavo sognando di essere nel mio ufficio.

Ricordavo quel giorno, perché era stato pessimo come pochi, a partire dal cliente che aveva rifiutato il mio progetto.

Ero in piedi accanto alla scrivania, con le braccia incrociate al petto e lo sguardo perso da qualche parte verso il basso. In principio avevo osservando i disegni dell'appartamento che avevo ideato per quell'imbecille, ma ben presto avevo quasi perso interesse nel cercare gli errori che mi erano costati quel rifiuto netto.

Il capo non ne era rimasto affatto contento e io ero di pessimo umore. Aveva assegnato a me il lavoro perché sapeva quanto valevo, sapeva di potersi fidare, ma avevo fallito e lo trovava – lo trovavo – inaccettabile.

Che avessi dimenticato di seguire qualche direttiva?

Nel sogno, le carte del progetto mi sembravano del tutto sconclusionate, probabilmente perché non ricordavo un solo dettaglio di quell'appartamento mentale al quale avrei voluto dare fuoco. 

Mi chiesi di nuovo, però, perché fosse stato rifiutato, che cosa dovessi aver sbagliato.

Mi chiesi se avessi sbagliato.

Sospirai, gettando il portapenne a terra. Il tintinnio melodioso delle matite legnose che tamburellavano sulle mattonelle mi riportò con i piedi per terra.

Sentii un cellulare squillare. Mi guardai attorno.

Il mio era un ufficio condiviso con altre tre persone, ma di loro non c'era traccia. Doveva essere passato da un pezzo l'orario di chiusura dell'azienda. Quindi doveva essere proprio mio il telefono che trillava, ma non ricordavo di avere mai avuto una canzoncina così tristemente inquietante come suoneria. Era come una lenta nenia piagnucolosa, che rendeva quella stanza con le luci abbassate ancora più cupa.

Finalmente lo individuai: era vicino al computer, proprio accanto alla tastiera. Lo schermo si illuminava a intermittenza e il nome di Filippo mi fece rabbrividire.

Risposi.

– Dimmi.

– Amore, presto! – non seppi se agitarmi di più per come mi aveva chiamata, oppure per l'ansia che soffocava la sua voce – Silvia sta partorendo! Mi ha mandato un messaggio poco fa!

Ci mise poco, in quel modo, a farmi perdere totalmente presa sulla realtà, a farmi dimenticare che ero una Beatrice diversa, che ero una Beatrice che stava dormendo, in quel momento, e che non ero più "amore" e neanche la Beatrice che si sarebbe dovuta interessare a una notizia del genere.

A me, di Silvia, della mia migliore amica, non sarebbe dovuto importare più nulla.Ma la forza del sogno mi strattonò verso di sé, portandomi giù.

– Dove? – gridai, completamente nel panico – In che ospedale? È già lì? È già iniziato tutto?

E mentre ansimavo sconvolta, mi incastrai il cellulare tra la spalla e l'orecchio, per avere le mani libere. Afferrai il cappotto pesante, mi gettai sulla spalle la sciarpa e trascinai via dal piccolo guardaroba improvvisato la mia borsa griffata.

– Sono ancora in viaggio, stanno andando al Pergolino. – anche lui era affannato e lo sentivo scendere le scale di corsa – Io sto uscendo ora di casa. Spero di aver spento in forno, quando ho letto il messaggio stavo preparando il pollo e sono andato completamente in tilt.

– No, ecco, magari risali a controllare che tu l'abbia effettivamente spento. – mi sfuggì un sorriso, mentre chiudevo come una furia le porte dell'ufficio – Ci vediamo in ospedale.

– Sì, hai ragione, risalgo. A dopo, amore.

Mettemmo giù praticamente in automatico.

Mi mancava solo una serratura da chiudere, poi mi sarei potuta scapicollare nell'ascensore per andare alla fermata dell'autobus, e di lì avrei sopportato il traffico di quella città poco adatta alle persone impazienti. Dovevo esserci, lo avevo promesso, dovevo esserci per Silvia, per il suo compagno, per la loro bambina. Dovevo sbrigarmi.

La Maledizione di chi Rimpiange [Completa]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora