4. Il vecchio

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Quando mi addormentai, un brivido di paura mi scosse. La cosa grave era che sapevo perfettamente dove mi trovavo.

Nel mio campionario di sogni, ce n'erano due che mi tormentavano da circa un anno, da quando la mia vita si era tinta di terrore. Erano sogni anomali, lo avevo capito presto, perché erano gli unici due a non essere parte dei miei ricordi, o del mio vissuto. Era totalmente nuovi, senza senso e anche spaventosi. Definirli incubi, forse, avrebbe reso meglio l'idea.

Mi guardai attorno, senza ottenerne nulla, perché ero totalmente avvolta dal buio.

Sentivo il pavimento gelido sotto ai miei piedi, una superficie liscia e leggermente polverosa, che percepivo con la pelle nuda, senza riuscire a vederla. Il mio cuore batteva rapido ed era l'unico suono udibile. Questo, almeno, per i primi istanti.

Mi stropicciai gli occhi con foga, cercando di togliermi dalle palpebre quella patina di oscurità che mi rendeva cieca.

Il mio fu un tentativo inutile, perché non c'era niente a ostacolare il mio sguardo, ero semplicemente immersa nel nero più totale. Avrei dovuto saperlo.

Respirare era faticoso, avevo paura che qualcosa potesse nascondersi in mezzo a quella pece vischiosa. Tanto era il timore che iniziai a percepire veramente qualche movimento attorno a me, impercettibile e frutto di una mera soggezione, ma bastò per farmi accapponare la pelle.

Prima che potessi cedere al nervosismo e urlare, il buio sembrò rischiararsi appena, salvandomi dall'infarto.

A qualche metro da me, un barlume delineava i contorni confusi di una porta. La luce proveniva dalla sinistra, incanalata come se fosse incastrata in un corridoio.

Riuscivo finalmente a distinguere le mie dita. Fu un sollievo.

Affannata, mi avvicinai, ritrovandomi a fissare la porta buia, non abbastanza illuminata da risultare familiare o invitante.

Cercai l'origine del bagliore, voltandomi leggermente, già in fermento sapendo cosa avrei trovato. In fondo a quello che avevo bene identificato come un corridoio c'era qualcosa. Una stanza senza porte, che si apriva su un arredamento appena rischiarato, che sembrava essere molto antico.

Nell'angolo c'era una piccola e vecchia televisione. Era accesa ed era lei a illuminare appena quello spazio.

La schermata che mostrava era instabile, non era a colori, e le immagini non erano chiare. Mi sarei dovuta avvicinare per capire cosa stesse trasmettendo, ma il terrore mi aveva sempre impedito di farlo. Il sottile ronzio elettrico che l'apparecchio riproduceva era inquietante.

Sforzandomi di non piangere, tornai alla porta che avevo di fronte. Abbassai la maniglia.

Alcune volte riuscivo ad aprirla, altre invece no. Non sapevo da cosa fosse determinato, fatto sta che in questo momento riuscii a spalancarla. Ero indecisa se esserne sollevata o meno.

Dall'altra parte trovai altro buio. Mi sforzai di muovere un paio di passi, quanti ne bastavano per permettermi di superare la porta, deglutire e sentirla chiudersi alle mie spalle con lentezza, sospirando, sospinta da mani invisibili.

Ancora oscurità, oscurità che divorava le pareti, rendendole poco distinguibili e forse inesistenti. Era come uno spazio senza alcun confine, senza alcun limite, e io ero indecisa se soffrire di agorafobia o claustrofobia.

Il silenzio cupo e devastante peggiorava ulteriormente la situazione, rendendo quella stanza asfissiante a livelli inenarrabili.

C'ero io, in quel sogno, io, il buio e un vecchio.

A un metro scarso da me c'era un grosso tavolo da pranzo circolare. Enorme per una sola persona. Era rischiarato da un candelabro con un solo stelo di cera, che si consumava lento e bavoso all'ombra di una fiammella minuscola.

Oltre alla candela, mi osservavano immobili due occhi sbarrati, infossati e bui come tutto quel sogno. Un viso anziano e rugoso, una bocca arricciata in una smorfia forse schifata, forse dolorante – non l'avrei saputo dire con certezza.
Radi capelli bianchi gli ricoprivano il cranio ricoperto da piccole macchie della pelle, che alla penombra sembravano quasi pustole, o piccole bestioline ferme a schiacciare un riposino sulla sua testa.

Mi fissava, con quello sguardo scuro, che sembrava quasi rimproverarmi. Era tanto immobile da farmi chiedere per l'ennesima volta se stesse respirando, o fosse morto.

Tra le mani adagiate sul tavolo stringeva un taccuino di pelle marrone. Sembrava consumato, il filo delle pagine ne rivelava il loro colore giallastro e l'umidità che aveva arricciato la carta. Le dita del vecchio lo stringevano come se gli fosse potuto fuggire da un momento all'altro, spiccando il volo e fuggendo nel buio.

Il mio cuore non aveva smesso di folleggiare. L'anziano non si muoveva, eppure mi guardava, e quello sguardo mi uccideva, mi faceva sentire a disagio, mi terrorizzava.

Provai a dire qualcosa, ma non ci riuscii. Tentai ancora, ma inutilmente.

E allora un sospetto. Tremando, mi portai le mani alla bocca, per non trovarci niente. Nessuna fessura, nessuna apertura. La mia bocca era svanita, lasciando al suo posto pelle liscia e levigata, come se non ci fosse mai stato nulla, lì.

Il vecchio si mosse, ma solo per schiudere le labbra in un sorriso sprezzante, come a dimostrarmi che era vivo e che lui una bocca l'aveva ancora.

Spesso, a quel punto, tornavo alla realtà svegliandomi al suono di un grido strozzato, il mio. Ma altre, invece, le cose non andavano esattamente come previsto.

 Ma altre, invece, le cose non andavano esattamente come previsto

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Nota autrice: Sto notando con piacere che la stesura di questa benedetta storia sta procedendo

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Nota autrice: Sto notando con piacere che la stesura di questa benedetta storia sta procedendo. Sinceramente dopo il terzo o quarto tentativo non speravo più di riuscire a scriverla, e invece, mi sto ricredendo. E anzi! Non vorrei sbilanciarmi troppo, ma mi sento quasi soddisfatta.

Vi capita mai di stupirvi da soli?

La Maledizione di chi Rimpiange [Completa]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora