17. Son desta

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Io sapevo perché Filippo mi aveva lasciata. Me lo confessai a bassa voce mentre continuavo a osservarmi allo specchio.

Lentamente e con pigrizia iniziai ad asciugarmi, un pezzo per volta, dito per dito, centimetro di pelle per centimetro di pelle. Con altrettanta spossatezza scossi i capelli con il phon, lasciandoli umidi: ero troppo accaldata per abbrustolirmi più del necessario.

Filippo mi aveva lasciata perché aveva capito una cosa chiara e semplice, il giorno del nostro matrimonio.

Quando ero caduta praticamente ai suoi piedi, durante uno dei momenti più importanti della nostra vita, aveva capito che lui sarebbe stato marito e badante, per me, per sempre. Aveva capito che scegliendo di sposarmi sceglieva anche di prendersi l'enorme carico della mia narcolessia.

E probabilmente la cosa lo aveva spaventato, ma come dargli contro, come non capirlo? Chi avrebbe mai voluto un fardello del genere insieme a un anello?

E di questo non riuscivo a fargliene una colpa. Io ero stata costretta ad accettare me e la mia malattia, perché l'alternativa sarebbe stata ammazzarmi. Ma nessuno oltre a me era obbligato a fare lo stesso, nessuno doveva accettare la mia narcolessia, non la mia migliore amica, non i miei genitori, non Filippo.

E andava bene così, non volevo niente di diverso: non volevo essere la schiavitù di qualcun altro.

Forse Filippo mi amava ancora, forse non aveva mai smesso di amarmi, ma la paura di quello che stava accettando dichiarandomi amore eterno era stato troppo anche per lui. 

Comprensibile, accettabile, prevedibile.

Come dicevo, io sapevo perché mi aveva lasciata all'altare, eppure non riuscivo neppure a chiederglielo esplicitamente. Il sapere cosa mi avrebbe risposto mi bloccava, non sapere cosa gli avrei dovuto rispondere mi terrorizzava.

Ma dovevo affrontarlo, dovevo sforzarmi di affrontare la paura e di scacciare i miei rimpianti.

Dovevo farlo per me stessa e per la relazione che avremmo potuto ricostruire in qualche modo insieme, una volta chiarita la questione che ci trascinavamo dietro da un anno. La puzza di quei cadaveri nell'armadio iniziava a essere davvero troppo soffocante.Indossai vestiti puliti, freschi di lavanderia, morbidi, profumati e mi sentii già rinata.

Cercai il numero di mia madre sul cellulare, ma prima di avviare la telefonata sospirai due, tre, quattro volte.

Non mi sentivo pronta per affrontarla, neanche se in maniera così indiretta.

– Ciao, senti, domani potresti evitare di passare per il pranzo?

Il suo silenzio era piuttosto indicativo: era ancora offesa per l'altro giorno, quando mi aveva chiamata quindici volte e io non le avevo mai risposto. Mi dispiaceva, ma non così tanto da scusarmi. Anzi, andai a fondo, forte del mio egoismo.

– Avrei delle cose da fare – aggiunsi.

– Ti ho comprato la torta di compleanno – sibilò attraverso il microfono.

Alzai gli occhi al cielo, piuttosto sconsolata, sapendo che sarebbe stata dura da far retrocedere.

– Grazie, ma è che... davvero, ho delle cose da fare.

– Cosa?

– Ho trent'anni. Posso avere qualcosa che preferirei non dirti?

– Hai trent'anni e io non ti ho ancora portato la torta per il tuo compleanno – la sua voce era rotta da un tripudio di emozioni diverse.

Avrei voluto dirle che si trattava di un suo bisogno, non certo mio. Ma mi bloccai. E fu strano trattenermi, decidere di non ferirla volontariamente, nel mio perpetuo stato di adolescente incazzata.

La Maledizione di chi Rimpiange [Completa]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora