9. La favola [I]

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***Riassunto dei capitolo precedenti***

Beatrice è narcolettica e lo è fin da quando era bambina. Ha lottato con i denti per costruirsi una vita anche solo lontanamente normale e non ha mai permesso ai suoi colpi di sonno continui e invadenti di essere felice, di vivere e di andare avanti.
Questo, però, fino al giorno del suo matrimonio.
Sta camminando sulla navata per raggiungere Filippo, il suo fidanzato, all'altare, quando cade addormentata. Al suo risveglio di Filippo non ci sarà traccia e, soprattutto, scoprirà ben presto di essere stata lasciata e abbandonata lì.
Da qui il veloce declino della sua intera vita. Decide di lasciare il lavoro e di rinchiudersi dentro casa, rifiutandosi categoricamente di uscire. Vengono a farle visita a giorni alterni la madre e Filippo, per portarle un pasto caldo. Il perché Filippo venga a trovarla pur avendola abbandonata all'altare è ancora da capire.
Beatrice è frustrata: la madre le impedisce di accedere alla sua stessa cucina, reputando troppo pericoloso per una narcolettica cucinare in una casa dove vive da sola. E questo porta Beatrice a tentare le vie più strambe per scavalcare l'ostacolo, come usare un comodino come ariete, oppure ordinare su Amazon una fiamma ossidrica.
In tutto ciò, Beatrice non ha fatto a meno di notare come i suoi sogni, nell'ultimo anno, si siano fatti più strani. Fa spesso due incubi ricorrenti: quello di un vecchio seduto al tavolo in una casa buia e quello di un ragazzo imprigionato dentro a una radura sconfinata. Entrambi non le hanno mai rivolto la parola, ma sarà così per molto?

C'era qualcosa di diverso, qualcosa di profondamente diverso.

Il mio unico istinto fu di avvolgermi tra le braccia, alla ricerca di un riparo da quel maledetto incubo.

Era troppo buio. Sebbene il sogno del vecchio iniziasse sempre in quel modo, non c'era il solito bagliore in fondo alla stanza a suggerirmi un minimo di protezione.

L'oscurità era così densa da rendere difficoltoso persino il semplice respirare.

Provai a muovermi, terrorizzata da quel che avrei potuto schiacciare con i miei piedi nudi, spaventata da qualsiasi fruscio che avrebbe potuto sfiorare le mie orecchie. Sarebbe stato troppo. Immaginavo che nuotare in mezzo all'oceano, senza la possibilità di vedere cosa ci fosse sotto alle proprie gambe scodinzolanti, fosse più o meno così. Odiavo quella sensazione di vuoto, odiavo sentire presenze nell'ombra senza poterle effettivamente vedere: odiavo quel bianco, puro terrore.

Tremando, mi feci forza e mi spinsi in avanti con una mano ben stesa davanti al mio petto, in cerca di un appiglio. Quando le dita toccarono una parete liscia, mi tranquillizzai appena un po'. Lasciai scivolare la presa verso il basso, sperando si trattasse realmente della porta d'accesso all'altra stanza: alla stanza dove sapevo che avrei trovato il vecchio. Una volta che ebbi trovato la maniglia, tirai un sonoro sospiro di sollievo. Era già un passo avanti rispetto alla disperazione del buio totale.

Prima di spingerla verso il basso, mi concessi una rapida e indolore occhiata verso sinistra, dove c'era sempre stata la televisione e il bagliore semi rassicurante.

Ora c'era solo il buio. O meglio, forse mi sbagliavo, ma qualcosa riuscii comunque a intravedere. Era se la porta si fosse semplicemente chiusa, perché in basso scorgevo un sottilissimo spiraglio di luce.

Non volevo sapere perché fosse bloccata. Non mi interessava: avrei continuato a non metterci piede.

Desiderosa soltanto di mandare avanti il più velocemente possibile quel sogno schifoso, spinsi a fondo la maniglia e aprii la porta.

La Maledizione di chi Rimpiange [Completa]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora