Capitolo 5

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Calmo. Doveva restare calmo.
Era arrivato il temutissimo sabato e Magnus attendeva la sua risposta.
Alec si stava confrontando con i fratelli che gli avevano dato lo stesso parere: accettare assolutamente l'offerta di Magnus.
"Pensaci bene, fratello" gli stava infatti dicendo Jace, mentre alcune briciole cadevano sul maglione dopo che si era sparato una manciata di patatine in bocca, "E' davvero l'unica scelta plausibile! Perchè fai tanto il difficile?".
"Per l'angelo chiudi quella bocca mentre mastichi, Jace!" si intromise Isabelle schifata. Jace, per tutta risposta, spalancò le sue fauci mettendo in mostra il cibo masticato.
"Sei disgustoso!" disse Alec, "E non faccio il difficile. Sono realista!".
"E in cosa saresti realista? Fratellone, Jace ha ragione!" disse Izzy.
"Certo che ho ragione!" gonfiò il petto Jace, "Tra l'altro, tra i due, chi ne trae più vantaggio sei tu! Praticamente gli ripaghi l'auto con i suoi soldi! E' perfetto! Ti ha fatto una proposta davvero strana visto che, alla fin fine, non avrà niente in cambio!".
"Ohhh lo so io cosa avrà in cambio" disse maliziosa Izzy, sbattendo gli occhioni neri con fare civettuolo. Alec arrossì all'istante.
Non era comunque d'accordo con i fratelli. Lavorare con Magnus sarebbe stato molto più difficile di quanto loro immaginassero, perchè implicava stargli vicino per un lungo lasso di tempo. Se era andato in apnea per quei pochi minuti alla caffetteria, per i due anni successivi (o uno?) avrebbe avuto il bisogno costante di una bombola di ossigeno! Avrebbe potuto farcela?
E poi c'era il lavoro alla libreria di Luke. Come poteva lasciare quel posto e i suoi amati libri? Aveva raccontato la cosa al suo titolare e quest'ultimo gli aveva dato il via libera. Si fidava di Alec e se riteneva che fosse necessario lavorare per Magnus, lui non si sarebbe intromesso. Mannaggia a lui! Se Luke si fosse dimostrato più recalcitrante, Alec non ci avrebbe pensato due volte e sarebbe rimasto al suo posto.
La testa cominciava a fargli male, ci stava rimuginando troppo. Quella mattina si era svegliato sicuro: non avrebbe accettato e avrebbe fatto anche mille lavori diversi per racimolare l'ingente somma. Peccato che i fratelli lo stessero tormentando da più di un'ora e lui era più confuso ed incerto che mai, con le fondamenta, di quella che pensava essere la sua decisione finale, che si stavano sbriciolando minuto dopo minuto.
Aveva bisogno di un segno, uno qualsiasi che gli dicesse da quale parte del precipizio cadere. Mai, per tutto l'oro del mondo, avrebbe scommesso che sarebbe arrivato da chi meno se lo aspettava.
Suonò il campanello e i tre fratelli, intenti ancora a discutere, girarono contemporaneamente lo sguardo verso la porta. Izzy si mosse ed andò ad aprire e, per poco, non le venne un infarto.
Hodge, il maggiordomo di casa Lightwood, le consegnò, senza proferire parola, un biglietto su cui era indicato il nome di Alec. Si toccò il cappello e, come era venuto, se ne andò silenzioso.
Izzy si girò e, come in trance, allungò il messaggio ad Alec: "Alexander Gideon Lightwood è convocato presso la dimora dei Lightwood oggi pomeriggio alle ore 15:00 in punto. ".
"Non dice altro?" chiese Jace.
"No! A quanto pare da per scontato che Alec, da bravo soldatino, esegua l'ordine!" rispose Izzy, sbirciando da oltre il braccio del fratello, "Cosa farai fratellone?".
Alec era sotto shock. Dopo tutti quegli anni, dopo tutto quello che gli aveva detto, cosa mai poteva volere quell'uomo?
"Non lo so.. credo che andrò" rispose e i fratelli lo guardarono sconvolti.
"Sei serio?" chiese Jace, "Dopo tutto quello che ti ha fatto?! Perchè?".
"Perchè voglio dimostrargli che sono migliore di lui, che non vivo più nell'ombra, che sono orgoglioso di chi sono diventato" ribattè Alec, alzando il mento.

Ora, davanti al cancello di casa Lightwood, le parole dette a Jace vacillarono pesantemente.
Prima era assolutamente sicuro di quanto espresso, ma ora..
Prese un bel respiro e suonò il grande campanello alla sua sinistra. Una voce metallica uscì dalla feritoia del citofono, chiedendo chi fosse: Alec si annunciò. Le enormi sbarre di ferro si spalancarono e lui ebbe la sensazione di entrare nella tana del leone da cui non ne sarebbe uscito vivo.
Nervoso, percorse il vialetto curato. Hodge lo stava attendendo all'ingresso, gli fece un cenno con la testa e lo condusse tra i corridoi di quel castello che tanto conosceva. Arrivarono davanti alla porta dell'ufficio di Robert Lightwood, bussò e, senza attendere risposta, aprì la porta, mettendosi da parte per lasciarlo passare. Alec lo guardò e poi si impose di muovere i piedi, improvvisamente diventati di piombo.
La stanza era imponente, austera ed autoritaria, proprio come l'uomo seduto, su di una grande poltrona in pelle, dietro ad una lunga e lucida scrivania di mogano. Non era cambiato per niente, a parte qualche capello grigio che si intravedeva tra la chioma nera.
"Alexander" proruppe il capofamiglia, con la sua voce stentorea che fece battere più velocemente il cuore di Alec, già partito al galoppo da quando era sceso dal taxi e aveva alzato lo sguardo sulla sua ex casa.
"Mr. Lightwood" rispose Alec, dandogli del lei e per nulla intenzionato ad appellarlo con il nominativo che in realtà gli spettava, ma che per lui non meritava. "Ed è Alec. Perchè mi ha convocato?".
"Indisponente come al solito." rispose il padre, "Tutto a tempo debito, Alexander.".
Alec lo odiò. Ovvio che non avrebbe rispettato una sua richiesta. Non lo aveva mai fatto, perchè avrebbe dovuto inziare ora?
"Lavori ancora alla libreria di Luke?".
"Sì.". Aveva deciso che avrebbe risposto a monosillabi, non dicendo una parola di più, ben consapevole che, se ne avesse avuto occasione, l'avrebbe usata contro di lui.
"Alexander, Alexander, Alexander." disse, scuotendo la testa, "Noto con dispiacere che non sei cambiato affatto in questi sette anni. Rimani sempre l'essere inutile di allora. Avresti potuto combinare qualcosa di meglio nella tua vita, ma immagino che, con le tue limitate capacità, quel misero lavoro fosse il meglio a cui potevi ambire.".
Al silenzio del figlio, continuò "Un essere inutile che, mio malgrado, è l'unico figlio maschio che mi è rimasto. In Jonathan non scorre il nostro stesso, prezioso, sangue e Maxwell.. cielo, se quel piccolo lombrico senza spina dorsale fosse vivo, anzichè emularti, a quest'ora sarebbe diventato un ottimo successore e.." "Non osare nominare ed insultare Max!! Non te lo permetto!!" lo interruppe Alec, cieco di rabbia e con la volontà di mantenere le distanze che andava a farsi benedire.
"Ohhh tu non me lo permetti? Tu osi dire, a me, che non me lo permetti?" rispose incattivito Robert, "Sei tu quello che non deve osare, Alexander!! Come ti permetti di rivolgerti a tuo padre in questo modo?".
"Hai perso il diritto di definirti tale esattamente sette anni fa!".
Robert proruppe in una risata per nulla divertita "Sono tuo padre e tu sei mio figlio, Alexander. Siamo sangue dello stesso sangue e, per quanto la realtà mi faccia piacere tanto quanto a te, questo è un fatto che non si può cambiare. Per motivi che non devo spiegarti, devo ritirarmi dall'attività di famiglia e tu ne devi prendere le redini. Gli affari sono ben avviati e, per i primi tempi, sarai affiancato ad un mio collaboratore che ti insegnerà il mestiere. Lascerai il tuo attuale impiego e tornerai a vivere in questa casa. Hodge risponderà ad eventuali tue domande. Bene, è tutto. Puoi andare." concluse, con tutta l'intenzione di congedarsi, cominciando a scartabellare alcuni fogli che aveva davanti.
Alec era impietrito e non riusciva a dire una parola. La mente era un caos di pensieri vorticosi che non riusciva ad afferrare.
"Puoi andare, Alexander!" ribattè Robert, quando vide che il figlio era ancora fermo davanti a lui.
Alec provò a riuscuotersi e tentò di formulare una frase coerente, ma riuscì solo a gracchiare "Cosa.. come..".
"Alexander sei diventato anche sordo in questi anni? Ho detto che puoi andare!" tuonò Robert.
Alec non riusciva a respirare, non riusciva a pensare, non riusciva a fare niente. Era in completa balia dei suoi sentimenti e ci stava annegando dentro.
"No-non.. n-n-non.." cominciò, inspirando ed espirando un paio di volte, per calmarsi e mettere in ordine le idee. "Non ho alcuna intenzione di tornare in questa casa, nè di ereditare il tuo lavoro. Può andare tutto in malora per quanto mi riguarda." disse.
Robert alzò lo sguardo, annoiato da quel piccolo e patetico guizzo di ribellione "Alexander, smettila di fare l'idio.." "No! Ora tu stai a sentire me!" lo interruppe, infervorato, "Non voglio gestire la tua attività, non voglio tornare qua, non voglio avere più niente a che fare con te! E non puoi fare nulla per convincermi del contrario!".
"Ma davvero?" rispose maligno Robert.
Alec si bloccò. Cosa voleva dire? Perchè era dannatamente sicuro che avrebbe accettato?
"Vedi, Alexander, sei sempre stato lento a capire. Qui non si tratta di quello che vuoi tu, ma di quello che voglio io e di cosa è meglio per l'azienda. Tu farai quello che ti è stato ordinato, senza se e senza ma. Punto.".
"No!" si ribellò Alec, "Non ho intenz.." Robert fece finta di non sentirlo ed estrasse un telecomando dal cassetto della scrivania, accendendo il televisore all'angolo in fondo alla stanza.
Alec si girò e sbiancò. Sullo schermo scorrevano le immagini di lui al Pandemonium: era sulla pista da ballo e stava succhiando avidamente la lingua di Magnus, mentre gli palpava indecentemente il sedere.
"Sei sempre stato una delusione sotto ogni punto di vista e il teatrino indecoroso che hai messo su la scorsa settimana ne è una prova. Come ti ho appena detto, Alexander, non si tratta di quello che vuoi tu." disse Robert, "Ma per renderti chiaro il concetto, visto che non ci arrivi: farai quanto ti è stato detto. Le tue abnormali pulsioni verso il tuo stesso sesso dovranno sparire in questo preciso istante. Ti sposerai con una donna scelta da me, avrete dei figli e mi darai un nipote maschio che garantirà la successione. Non intendo tollerare oltre il fatto che tu infanghi il nostro buon nome con così tanta superficialità e menefreghismo. Non sei mai stato un ragazzo intelligente, ma confido che riuscirai ad afferrare quanto ti sto dicendo, vista la semplicità della cosa. Torni, dirigi l'azienda e mi dai un erede o, ti giuro Alexander, farò tutto quanto è in mio potere per distruggere la tua vita, quella dei tuoi fratelli e persino di quella checca nel video." concluse astioso.
Alec boccheggiò e lo guardò spaesato. Era in trappola. Di lui poteva farne quello che voleva, ma non poteva permettere che se la prendesse con Izzy e con Jace. E Magnus.. non si conoscevano affatto eppure sentiva di dover proteggere anche lui.
Abbassò la testa e le spalle, sconfitto, mentre invece un sorriso di trionfo spuntava sulle rigide labbra del padre. Gli occhi cominciarono a pizzicargli, ma ricacciò indietro le lacrime: non avrebbe mai pianto davanti a lui.
Si congedò e poi fuggì da quella stanza e da quella casa, diventate ormai entrambe troppo soffocanti.
Una volta in strada non riuscì più a trattenersi e il pianto divenne incontrollabile. Cominciò a tossire, non riusciva a respirare, le lacrime gli appannavano la vista ed intasavano il naso.
Si appoggiò al muro di cinta, lasciandosi cadere lentamente per terra, si abbracciò le ginocchia e ci affondò la testa, mentre i singhiozzi lo scuotevano tutto.
Un trillo del cellulare lo riportò al presente. Da quanto tempo era seduto lì al freddo? Non lo sapeva, aveva perso la cognizione del tempo. Lesse il messaggio che gli era arrivato.

Da Mr. Bane - 16:15
" Buongiorno mio dolcissimo Alexander ;-* Come stai? Odio doverti disturbare, ma mi stavo chiedendo se per caso avevi deciso definitivamente cosa fare. Qualunque sia la tua decisione, per favore, dimmela personalmente e non tramite un freddo ed impersonale sms. Ti aspetto a qualunque ora tu desideri, ma, ti prego, non farmi aspettare troppo a lungo! Non vedo l'ora di rivedere i tuoi splendidi occhi blu *___* ;-* "

Si era completamente dimenticato del suo debito. Il dolore di Alec divenne ancora più opprimente. Le timide fantasie che aveva fatto su una sua impossibile relazione con Magnus, sfumarono come un bellissimo sogno da cui ci si sveglia troppo presto. Non avrebbe più potuto nè vederlo nè sentirlo o gli avrebbe causato solo dei guai.
Alec si asciugò gli occhi con una manica e tirò su col naso. Si alzò da terra, fermò un taxi e diede al conducente l'indirizzo che ricordava. Si sentiva come un condannato a morte che stava andando al patibolo, ma tanto valeva vederlo subito e poi tagliare tutti i ponti.
Arrivò al palazzo indicato e salì la rampa di scale. Inspirò ed espirò un paio di volte per calmarsi e bussò alla porta. Questa si aprì e, come vide il sorriso di Magnus che si spalancò luminoso quando realizzò che era lui, tentò di resistere con tutte le sue forze, stringendo i pugni e ripetendosi mentalmente "E' giusto così".
Perse la battaglia con se stesso quasi subito e non riuscì più a controllarsi. Scoppiò in un pianto a dirotto e, tra i singhiozzi, farfugliò "Non posso accettare, Mr. Bane.".

Patto col diavoloDove le storie prendono vita. Scoprilo ora