Capitolo 1

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Sin da piccola non ho mai tenuto nascosta la mia passione per il viaggio e i miei erano sicuri che un giorno sarei partita per scoprire il mondo.
Ma nemmeno loro credevano che avrei lasciato casa così presto.
Partii lo stesso giorno in cui incontrai la fortuna, dal giorno in cui gli altri iniziarono a guardarmi come una ragazza privilegiata.
Avevo sedici anni quando quella proposta arrivò dal nulla.
Veronica, un’amica dei miei genitori, traferita ormai da tempo in America, era tornata in visita in Italia con suo marito Matthew, un dirigente di una grande impresa americana che aveva filiali nel Regno Unito e in Australia.
Veronica conosceva il mio spirito libero e la mia voglia di conoscere cose nuove, così non ebbe timore di mettermi al corrente del concorso bandito dalla società del marito, la Soky&Co.
La ditta stava progettando un corso di studi per i tre ragazzi che avrebbero vinto il loro concorso.
Tre anni lontani da casa in tre stati diversi.
Se avessi vinto avrei passato il primo anno a Richmond in Virginia dove avrei avuto la possibilità di andare a scuola la mattina e nel pomeriggio di conoscere l’attività della società, l’anno dopo poi mi sarei trasferita a Londra e infine mi avrebbe aspettato Sidney.
Non era un progetto che mi avrebbe vincolato: alla fine dei tre anni avrei avuto la possibilità di rimanere all’interno della società oppure scegliere di cambiare strada.
Il concorso era stato strutturato si per riuscire a plasmare personale per la copertura di ruoli importanti, ma anche per rinomare il nome dell’azienda all’interno del Paese.
-Il concorso si terrà tra circa un anno, in quanto stanno organizzando i vari programmi pomeridiani, compreso i corsi di aggiornamento per i futuri tutor, cercando gli alloggi e le scuole che potrebbero collaborare con il progetto. Sarebbe una grandissima opportunità per Cristina. Naturalmente io e Matthew siamo disposti ad ospitarla per questo anno di attesa, così che possa raggiungere un buon livello di inglese, anche se la ragazza non se la cava male. –concluse Veronica facendomi l’occhiolino.
Il mio inglese non era male per il fatto che sempre grazie a Veronica e Matthew avevo avuto la possibilità di passare qualche mese con loro in America.
I miei a quelle specie di vacanze studio non si erano mai opposti, ma quel giorno…
-Veronica, non so… sarebbero quattro anni e lei ha solo sedici anni! –esclamò mia madre.
-Lo so, Isabella! Ma questa è un opportunità da non perdere! –continuò Veronica.
-Dobbiamo pensarci. È davvero una bella possibilità, ma dobbiamo farci un’ idea chiara. Cristina, tu cosa vorresti fare? –mi domandò mio padre.
Rimasi in silenzio e guardai gli occhi di mia madre, la persona che mi conosceva meglio.
Mi guardava aspettando quella risposta che già conosceva, aveva uno sguardo attento nel quale riuscivo a scorgere anche un po’ di speranza. La speranza che anche a me quei quattro anni lontani facessero paura.
Quei quattro anni mi facevano paura, ma quella paura era minima perché sentivo un’attrazione fortissima che mi diceva di andare e partire.
-Beh... io… a me piacerebbe tentare… alla fine sarebbe solo un anno. Non è detto che poi venga scelta. Sono solo tre posti su chissà quanti iscritti. Ci voglio tentare.
-Bene. Questa sera ne parlerò meglio con la mamma e poi ti diremo, ok? –disse mio padre.
In quel momento sapevo che non era solo una mia scelta; era una scelta di tutta la famiglia, ma avevo paura che se non mi avessero lasciato andare avrei rimpianto quest’opportunità per tutta la vita.
Quella sera li sentii discutere.
Erano entrambi preoccupati, ma mio padre riuscì a consolare mia madre e a convincerla che stavano facendo la cosa giusta lasciandomi andare.
Quando mi comunicarono la loro decisione li abbracciai fortissimo.
Quell’abbraccio era pieno di emozioni: ringraziamento, paura, adrenalina.
Fu così che sette giorni dopo mi ritrovai su un aereo pronta a giocarmi il futuro a soli sedici anni.
Il primo anno fu quello più difficile. Oltre alla scuola studiavo con Veronica su vari prospetti e test di logica.
In quell’anno diedi  il massimo: la mia famiglia mi mancava ma questa era una motivazione in più, dovevo dimostrare che avevano fatto la scelta giusta.
La tensione del giorno del concorso non la dimenticherò mai. Ero talmente agitata che dovetti rileggere le domande più di una volta per essere sicura di non sbagliarle.
Quel test a risposta multipla era solo il primo step di quel lungo cammino.
Ci eravamo presentati in duecentosessanta e solo cinquanta sarebbero passati alla fase successiva.
Arrivai ventesima e la soddisfazione fu enorme, il mio corpo non poteva contenerla tutta.
Non avevo ancora raggiunto l’obiettivo, ma lo sentivo più vicino, più mio.
La seconda prova si basava su un colloquio di dieci minuti con uno psicologo.
Non chiedeva nulla dell’ambito lavorativo, faceva domande sulla nostra storia e sulle nostre ambizioni.
Dieci interminabili minuti nei quali raccontai le difficoltà di quell’anno passato.
L’ultima domanda mi spiazzò: -Cos’è per te la felicità?
Felicità. Cos’ è per Cristina Ferrante la felicità?
In quel momento, dopo un anno di lontananza, tante cose mi avrebbero reso felice, ma io sapevo che solo una cosa mi avrebbe reso veramente Felice, con la F maiuscola.
Così non ci pensai molto e risposi: -Viaggiare.
Ormai mancava solo l’ultima prova alla quale solo diciotto persone sarebbero state ammesse.
La fortuna giocò a mio favore e mi ritrovai in una stanza insieme ad altre due persone: una ragazza e un ragazzo.
Ci presentammo.
La ragazza si chiamava Rebecca, veniva da Bellwood e aveva diciotto anni. Era bionda con due grandi occhi azzurri.
Il ragazzo invece si chiamava Steve, veniva Midlothian e aveva diciannove anni. Aveva capelli neri a spazzola e occhi verdi.
Io ero la più piccola dei tre e venivo da Milano.
Ricordo ancora oggi che gli occhi di Rebecca alla parola Milano si illuminarono e mi chiesero subito una descrizione dettagliata della città e in particolare dei negozi di alta moda.
Anche Steve mi chiese parecchie informazioni sull’Italia, ma poi stanca di rispondere iniziai a tempestarli di domande sul loro paese e sui posti che avevano visitato.
Era passata un ora e nessuno era ancora venuto  a chiamarci.
In quell’ora però si era innescato come una specie di legame con quei due ragazzi. C’era la voglia di conoscerli più a fondo e dalle domande che ancora ogni tanto mi rivolgevano sentivo che anche da parte loro si era innescato quel meccanismo.
Passò ancora mezzora e io potevo ormai avere una descrizione quasi completa dei due ragazzi.
Dopo un’ora e mezza non ci eravamo granché lamentati per l’attesa e la tensione era scivolata via grazie alle chiacchere, ma dopo tutto quel tempo iniziavamo a farci delle domande.
Steve si alzò in piedi e appoggiandosi al tavolo: -Secondo voi si sono dimenticati di noi?
-Bah… inizio a pensarla così anche io. Cristina? –continuò Rebecca.
-Può essere. Che ne dite se dopo andassimo a mangiarci una pizza? –proposi nella speranza della nascita di una nuova amicizia.
Per raggiungere il mio obiettivo non mi ero fatta molti amici lì a Richmond, sarebbero solo state nuove persone a cui dire addio un giorno, per farla breve dolere aggiunto.
I due non risposero subito ma scoppiarono a ridere.
-Che c’è? –domandai.
-Noi siamo preoccupati e tu ci chiedi di andare a mangiare una piazza! –esclamò Rebecca continuando a ridere.
-Io però ci sto! –continuò Steve.
Anche Rebecca accettò l’invito e dopo il suo sì finalmente un uomo sulla quarantina entrò nella stanza.
Noi ci azzittimmo e prestammo attenzione alle parole dell’uomo.
La nostra terza prova.
La tensione che era scomparsa, tornò ad accelerare i battiti dei nostri cuori.
Rebecca mi strinse la mano e quel gesto non passò inosservato.
Mr Powell sorrise.
Semplicemente ci disse che la nostra terza prova era finita.
Noi ci guardammo spaesati.
Lui continuò dicendo che volevano vedere come avremmo reagito trovandoci in una stanza con altri concorrenti; concluse dicendo che ci avrebbero fatto sapere presto i risultai.
Io sorrisi: -Pizza?
E nuovamente la stanza fu riempita dalle risate di Steve e Rebecca.

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