60. "Dov'è lui?"

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Harry

I giorni passavano e la voragine dentro di me sembrava crescere, sopraffarmi, divorarmi, finchè non ci sarebbe stato nient'altro di me. Come se quella voragine sarebbe stata il mio inizio e la mia fine. Come se non fosse rimasto altro. Ero diventato quella voragine, quella cava di oscurità, intorpidimento, impotenza e miseria. E quel che era ancora peggio, era che non riuscivo a portare lei con me. Non per il suo bene, no, ma perchè ogni volta che le ero vicino, mi sentivo un po' più vuoto e quel buco diventava sempre più nero e la incolpavo di ciò. Dio, odiavo incolparla, ma sembrava tutto quello che riuscivo a fare. Sembrava tutto quello che ero capace di provare.

Quindi passai le notti fuori, lasciandola a prendersi cura di Raine, a passare del tempo con mia madre, nella speranza che si dimenticasse di me. Passai i giorni affaccendato tra lavoro, ronde e piani, così da non pensare allo sguardo che mi aveva lanciato, prima che uscissi dall porta, o al sorriso che aveva disperatamente cercato di forzare, per rassicurarmi che lei era lì ad aspettarmi. Non volevo che mi aspettarre. Non sarie potuto tornare indietro. Non da lei, non da me stesso. Semplicemente...non potevo.

Era tardi e la giornata mi aveva distrutto. Ero consumato in generale, ma mi sentivo rivoltante, sudicio e deriso, quindi decisi di tornare nella mia stanza, fare una doccia fredda e cambiarmi i vestiti, prima di andare a fare un altro giro di pattuglia. Mi facevano male i muscoli, le ossa scricchiolavano a ogni passo che facevo, ma la mia mente vorticava ancora,sbattendo contro un muro senza interruzioni. Non riuscivo a pensare lucidamente.

Spinsi la porta con la spalla, entrando nella stanza scura, al che mi colpì la solitudine, il vuoto e l'estraneita che percepivo in essa. Ancora una volta mi ricordai che la mia vera casa era lì fuori da qualche parte, a soffrire, a spezzarsi, e io non potevo esserle vicino. Un sospiro uscì dalle mie labbra, mentre mi toglievo le scarpe e la maglietta, prima di accendere una candela, semplicemente per evitare di inciampare in qualcosa. Era come se avessi potuto distruggermi se l'avessi fatto.

Fu allora che lo sentii; un piagnucolio o semplicemente un verso di angoscia. Voltai la testa immediatamente verso il letto, la candela ora illuminava una figura che prima non avevo visto. Non avrei potuto sbagliarmi. L'avrei sempre riconosciuta, anche lontana da miglia. La mia figura stanca reagì prima che la mia mente lacerata potesse processarlo, mentre correvo al suo fianco, facendola stendere sulla schiena. Pensavo fosse un altro incubo, pensavo si fosse persa di nuovo, ma i suoi occhi carichi di lacrime mi guardarono, mentre le sue mani rimanevano incrociate sul suo petto.

"Gesù Cristo, Autumn." mi allontanai, il petto ancora pesante a causa del panico, che sentivo farsi strada attraverso gli strati accumulati di insensibilità.

"Mi dispiace, n-non pensavo saresti tornato così presto, e-" un sibilo uscì dalle sue labbra, mentre tentava di mettersi seduta. Mi ricordai di tutte le sue ferite che aveva sofferto. Tutte le ferite che avevo provato a far guarire, che avevo bendato e di cui mi ero preso cura. Tutto il dolore che volevo disperatamente portarle via. Ora non riuscivo a far altro che guardarla soffrire. Quale cazzo era il mio problema?

"Qual è il problema? Qualcuno ti ha fatto del male? Ti sei fatta male?" aveva una mano sullo stomaco, mentre continuava a raddrizzare la sua postura al meglio che poteva. Aggrottai la fronte confuso, leggermente preoccupato.

"No, no. S-sto bene. Me ne vado e ti lascio stare. M-mi dispiace."

"Autumn, fermati." le misi una mano sulla spalla, facendola sedere. Odiavo vederla soffrire. Odiavo sentirmi così inadeguato quando si parlava di aiutarla. Odiavo semplicemente come mi sentivo- cosa lei mi faceva provare.

"Dimmi qual è il problema." volevo che il tono della mia voce fosse gentile, morbido, come lo era sempre quando parlavo con lei. Ma uscì duro, esigente, quasi spietato. E mi chiesi se sarei mai stato capace di parlarle di nuovo in quel modo.

"Harry, non è importante onestamente, sto-"

"Allora mostrami la pancia."

"Non voglio." sussurrò a malapena, una lacrima le scivolò lungo la guancia, cadendo prima che potessi catturarla, ma lasciò una traccia dietro di sè, ricordandomi che era stata lì. Che Autumn stava piangendo.

"Non mi importa." invece si. Mi importava fottutamente tanto. Perchè non riuscivo semplicemente a dirlo? "Voglio vedere qual è il problema. Mostrami la pancia." mi allungai per alzarle la maglia, ma lei si girò, alimentando la mia preoccupazione, la rabbia e tutti gli altri sentimenti che non sapevo come processarli.

"Smettila di lottare, Autumn." presi entrambe le sue mani nella mia, alzandole la maglia con l'altra. C'era il marchio bruciato, fresco, rosso e bruttissimo di alcune iniziali che erano dolorosamene familiari.

"Cosa hai fatto?" annaspai, il petto improvvisamente stretto, pieno fino allorlo di dolore, emozioni e petti di un cuore che una volta era integro. Ricordai della volta che mi disse che si marchiava a fuoco le iniziali delle sue vittime sulla sua pelle. Ma quella non era una delle sue vittime. Lei non aveva ucciso il padre di Raine. Allora perchè diavolo era così sopraffatta dal rimorso, da infliggersi tale dolore? Cosa ancora più importante, perchè non ero stato capace di fare niente a riguardo?

Ma poi, un orribile pensiero strisciò nella mia mente, divorandomi e tormentando quel che era rimasto della mia anima, mentre le mie dita frenetiche iniziavano a toccare la sua pancia, cercando le iniziali che desideravo non trovare. "Dove sono le iniziali di mio padre, Autumn? Huh? Hai tutte le tue vittime qui, dov'è lui?" lei tremò sotto il mio tocco, ma io ero troppo offuscato per prestarne attenzione, mentre lei iniziava a piangere con più forza, provando a fuggire dalla mia presa disperatamente.

La verità era che mio padre non era nascosto tra gli strati della sua pelle. Mio padre non era stato imprigionato dietro le sue costole, o strangolato dalle sue dita. Mio padre non era da nessuna parte. Lui non era niente. Se ne era andato. E non importava quanto scavassi a fondo, non importava quanto urlassi e mi ribellassi, lui non sarebbe tornato.

Quindi una spinta finale la allontanai, facendola cadere a terra e indietreggiare, mentre la brutale realtà mi infuocava e guardavo un paio di occhi color caramello spaventati e un viso pallido, pieno di lacrime.

"Tu-tu mi hai ferita. Tu mi stavi fottutamente ferendo." non era arrabbiata. Accusava appena il tutto. Era più che alto sbigottita, come se non si aspettasse che a farle del male sarei stato io. Come se non riuscisse a credere che fossi capace di farle questo. Sentii i pilastri del mio essere crollare, il fuoco ruggire dentro di me, bruciandomi vivo, lasciando solo cenere e i resti. Non riuscivo a respirare. E per la prima volta in vita mia, non avevo paura di lei, ero terrorizzato per lei. Avevo paura di me stesso.

"io- i-io non so cosa stia succendendo. Non so cosa sto facendo." si asciugò le lacrime con rabbia, quasi, mentre si alzava in piedi tremante. Barcollò, quasi cadde, il brucco a coprirle di nuovo lo stomaco, mentre il suo sguardo scappava disperatamente dal mio.

"Penso tu debba andartene." andai in bagno, chiudendo la porta e poggiandomi contro di essa, incapace di riprendermi. Aspettai, trattenendo il fiato, finchè un singulto strozzato non risuonò nella stanza, prima che una porta venisse aperta e poi richiusa. E non sapevo se questo significasse che lei non aveva mantenuto la sua promessa, o io a non aver mantenuto la sua.

Nel caso non l'aveste fatto, se vi va andate a leggere la nuova ff "Stylist". Love you all.

Rupture [h.s. - italian translation]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora