Capitolo 21

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Phoenix era seduto sulla panca in metallo, era appena uscito dalla doccia ed era ancora bagnato. Si infilò i pantaloncini di nylon e si passò le mani sul viso. Dall'esterno le luci calde inondavano il ring. Scorse dalla porta di metallo semiaperta una folla di persone che iniziava a riempire le grate da dove si sarebbe assistito allo spettacolo.

Dopo ciò che era successo nel pomeriggio non era minimamente concentrato.

-Sei pronto? Se stasera mi fai perdere tutti quei soldi, Phoenix...-

Negli spogliatoi era entrata una donna alta e bionda, stretta in un vestitino nero aderente, con un cappotto rosso sulle spalle e i guanti del medesimo colore che le fasciavano le dita sottili. Sfilò una sigaretta dal pacchetto incastrato tra i suoi seni. La appoggiò tra le labbra e l'accese. Si avvicinò al ragazzo e posò una mano sulla sua spalla massiccia. Gli sbuffò il fumo sul volto e gli sorrise.

-Io non perdo mai, signora Lee- rispose Phoenix, rimanendo con le braccia tese lungo il busto, gelido.

Ellen annuì e accarezzò il suo petto muscoloso, scivolando fino all'elastico dei pantaloncini –Però mio figlio ti ha conciato in questo modo.-

-Cosa avrei dovuto fare? Ucciderlo?- le bloccò il polso.

-Pensavo ti riuscisse facile, ormai- con la mano libera gli tirò uno schiaffo, dritto sulla guancia livida –Non fermarmi. Sono io che ti pago.-

-Mi paga per combattere, non per questo.-

-E chi lo decide?- lo abbassò verso di sé, premendogli una mano dietro la nuca –Voglio che vai lì fuori e che riversi tutta la rabbia sul tuo avversario. Non deve più alzarsi. Ammazzalo. Devi vincere- si staccò quando arrivò alle loro orecchie il trillo che segnava l'inizio della gara. Sparì dalla porta da cui era entrata e Phoenix rimase solo.

Dopo la discussione avuta con Phoenix, Isabel era un contenitore di rabbia e pensieri distruttivi. Phoenix aveva ragione, sarebbe stata in grado di fare a brandelli la sua vita. Non ci sarebbe stato niente di più soddisfacente della vendetta.

Aprì l'armadio della sua stanza e iniziò a rovistare tra i suoi cassetti. Era tornato il momento di riprendersi la vita che aveva abbandonato. Era nata per fare una cosa soltanto, quella che riusciva ad anestetizzare il dolore feroce che le divorava le interiora. Indossò della biancheria di pizzo bianco trasparente, guardò allo specchio il suo corpicino latteo modellato ad arte. Passò le dita sulle costole sporgenti sotto il seno, accarezzò i fianchi stretti e ossuti, strinse le cosce sottili tra gli indici e i pollici congiunti. Dopo essersi ispezionata attentamente indossò un paio di parigine, una gonna e un top. Uscì di casa con un sorriso determinato.

Era bellissima. Si guardò allo specchietto della macchina e schioccò le labbra illuminate da un fascio di luce lunare. Venere splendeva alta, conficcata nel telo nero celeste. Premette il piede sull'acceleratore e abbassò il tettuccio della macchina. Il vento le accarezzava i capelli come nessun uomo avrebbe mai saputo fare. Guidò verso il locale conosciuto a Steeland come una normale discoteca per ragazzi. Parcheggiò ed entrò, si immerse tra le luci a neon e la calca di gente. Si spinse in avanti per arrivare alla porta di servizio. Conosceva bene la strada. Difronte c'era un buttafuori, che non appena la vide si mostrò sorpreso.

-Sono tornata. Mi fai passare o no?- chiese sfacciatamente, aggrappandosi al suo braccio e sporgendosi sul suo viso.

-Il capo ora non c'è. Non so se posso...- lei era da qualche altra parte, con le mani addosso a Phoenix.

-Sono sicura che il capo sarà contento. Vuole guadagnare, no? Allora vuole me.-

-E Phoenix?- chiese quello, mentre apriva la porta. Il ragazzo non era nuovo in quel circolo. Era abituato a soddisfare le signore e le ragazze dell'alta società. Vendeva il suo corpo con naturalezza e senza rimpianti. Era per quella motivazione che credeva che quella notte Dyana l'aveva portato nel bosco per fare sesso.

-Ci sono solo io. Sarà sempre così da ora.-

Tutto ciò che succede di nascosto è molto più interessante di quello che si vede in superficie.

Isabel strinse il corrimanico delle scale in vetro luminose, posò i suo occhi sull'interno spazioso del locale sotterraneo. Continuò a scendere lentamente, le luci bianche e soffuse illuminavano le sue gambe e sparivano sotto la gonna. Era buio, una musica bassa riempiva il silenzio imbottito di ansimi e risate. In mezzo alla sala delle ragazze ballavano attorno a pali che scendevano dal soffitto, fissavano gli uomini seduti sui divani.

Era proprio così che immaginava l'inferno. Un luogo in cui il tempo non cambiava, immobile. All'inferno non devi preoccuparti di nulla, hai già completato il tuo processo di dannazione. Non c'è nessuno spiraglio di salvezza e questo ti tranquillizza, perché finalmente ti lasci andare e agisci per quello che sei.

Isabel voleva tornare al suo inferno. Solo in questo modo avrebbe allentato quella stretta attorno alla gola che non le permetteva di essere felice. Era sempre più sicura che la felicità fosse l'assenza completa di ogni sentimento. Il buco nero che ti risucchia e ti annulla è la felicità.

Perché lottare per essere qualcosa di diverso? Era abituata a donarsi agli altri, ad essere trattata come un oggetto. Oltre al suo corpo non aveva niente. Era la ragazza vuota che non sarebbe mai stata la protagonista di un film, una di quelle cheerleader smorfiose lasciate dal fidanzato per la nuova arrivata.

Un uomo l'avvicinò e le cinse il corpo magro con le mani, la condusse verso una poltrona. Lei rise e lo seguì sinuosamente. La baciò e ricambiò come una bambola. In quel contatto viscido e sporco ingoiò il dolore e la disperazione. Sentì sulla bocca di quello sconosciuto il sapore della tentazione del suicidio. Continuava a ridere e a stringersi a lui. Le infilò in bocca una pasticca e la ingoiò prontamente. Quelle mani erano come quelle di Phoenix, del compagno di sua madre, di Ryan, e la lista sarebbe stata ancora lunga. Ruvide e senza amore.

Fu in quel momento che vide il professore seduto su una poltrona difronte alla sua, al lato opposto della sala.

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