Capitolo 12

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-Non pensi di aver esagerato?- Andrew affiancò Ashton quando le lezioni finirono. Il ragazzo non gli rispose, gli prese il polso e fermò la sua corsa per chissà dove. La manica si alzò e rivelò un mosaico di tagli rossi e freschi.

Ashton si liberò da lui e gli mise una mano sulla spalla, spingendolo appena –No, non credo di aver esagerato, per niente. Anzi, sono solo all'inizio. Quel bastardo deve rimpiangere la prigione, deve desiderare di ritornarci. Voglio rendergli la vita un inferno- diminuì la velocità dei suoi passi. Andrew rimase in silenzio, il fiato sospeso. Non sapeva cosa fare per diminuire la rabbia di Ashton.

Lui era sempre stato il tramite tra Phoenix e Ashton, quello da cui andavano entrambi nel momento in cui c'era bisogno  di un giudice imparziale, quello calmo ed equilibrato, su cui si poteva contare. Lo avevano sempre dato per scontato. Andrew era il classico ragazzo dalle spalle larghe e forti, sulle quali poteva cadere un asteroide, ma non si sarebbero mai spezzate. Se credeva o meno nell'innocenza di Phoenix? Ci credeva, ci aveva creduto senza neppure sentire la sua deposizione in tribunale. Da quando era andato in prigione era andato a fargli visita all'insaputa di Ashton. Non aveva visto nei suoi occhi l'ombra di nessuna colpevolezza, né aveva l'aspetto di un assassino. Si chiedeva quale aspetto avesse effettivamente un assassino. Se, in fin dei conti, nel momento adatto, non saremmo tutti capaci di uccidere un altro uomo.

L'unico in grado di commettere un omicidio continuava a sembrare Ashton. Quella rabbia, quell'odio, quell'espressione cattiva che gli tirava ogni muscolo della faccia e che aveva visto tante altre volte. Ashton era una persona silenziosa, pacata, capace di rendersi invisibile e insospettabile. Eppure gli capitavano attacchi d'ira funesti, sin da ragazzino. Erano come scosse dolorose che poteva far cessare solo con la violenza, su se stesso o sugli altri.

Indossava sempre maglie a maniche lunghe. Non si vergognava dei suoi segni, ma non voleva spiegare niente. Cosa avrebbe potuto dire alle persone che gli chiedevano "Cosa ti sei fatto lì?"; "Come mai hai quelle cicatrici?". Che risposta cercavano? Cosa volevano sentirsi dire? Anche se avesse smesso di tagliarsi avrebbe avuto dei segni evidenti sul suo corpo per tutta la vita, cicatrici indelebili. Le persone erano indiscrete e fingevano di essere ingenue. Ashton avrebbe voluto dire loro che non c'era un motivo preciso, che lo faceva per tutto e per niente, un po'per noia e un po'per disperazione.

Sul telefono aveva salvato molte immagini di parti del corpo ferite. Le guardava quando aveva voglia di farsi del male ma non poteva. Le mani gli prudevano specialmente quando era solo con i suoi genitori, magari a una cena elegante con altri ospiti. Cercavano di farlo passare per un ragazzo brillante ed educato, ma lui rimaneva zitto e con la faccia abbassata sui piatti pieni. Si alzava per andare in bagno, levava la cover al telefono, prendeva le lame del rasoio che aveva avvolto in un fazzolettino e si sedeva sul cesso placcato in oro di quel ristorante a cinque stelle. Una volta era tanto così dall'ammazzarsi. Gli dispiaceva non essere stato cosciente, quella sera avrebbe visto la madre piangere, le persone chiamare impazzite l'ambulanza, i paramedici portarlo via tra gli sguardi sconcertati dei presenti.

Andò anche dallo psicologo, solitamente è quello che fanno le persone troppo ricche per occuparsi di qualcosa di realmente concreto.

"Cosa c'è che non va in te?" gli chiedeva il padre, disgustato, mentre lo guardava fallire la vita.

Era nato con qualcosa di rotto, un piccolo filamento del cervello collegato male con gli altri. Infondo era solo questione di biologia.

-Lascia stare. Puoi smettere di pensarci solo per qualche ora?- chiese Andrew, mentre camminava lontano dall'istituto, alla fine delle lezioni –Andiamo al lago, non hai voglia di farti un bagno?-

-A dire il vero no, fa freddo- rispose Ashton lapidario, ma in realtà ne aveva voglia, eccome. Si affrettò verso la macchina e aspettò che Andrew si sedesse al suo fianco, partì senza dire una parola. Sapevano entrambi dove stavano andando.

Non avevano bisogno di parole, potevano capirsi semplicemente con i silenzi. C'era un'intesa e una complicità che li aveva legati subito. Un'intimità che avevano sempre tenuto nascosta davanti a tutti, eccetto Phoenix, che li aveva visti in ogni modo, senza mai scomporsi. I tre amici vivevano nell'ambiguità e Ashton era il più fluido, si avvicinava ora all'uno e ora all'altro. Negava a se stesso di provare uno sporco piacere nel creare situazioni di ambiguità tra di loro, negava ancora con più forza di sentire la mancanza di Phoenix, di volerlo vedere dormire, quasi nudo, girato su un braccio, al suo fianco, con la bocca dischiusa e le ciglia abbassate. Negava tutto ciò che c'era di perverso in se stesso: la violenza, le attrazioni sbagliate, le pulsioni verso il male.

La strada correva sotto le ruote della macchina di Ashton, il sole picchiava contro i vetri, l'abitacolo era rovente. Accesero la radio, nessun canale si sentiva bene. La strada era stretta e sottile, non lastricata, in pendenza, si inoltrava nella parte opposta del lato della foresta presso il quale abitava Dyana. La macchina si bloccò, Ashton cercò di rimetterla in moto, senza nessun risultato. Il sole continuava a cadere spietatamente sui loro corpi, i sediolini e il volante erano diventati lava solida. Ashton si alzò quasi disperato, uscì dall'auto e tirò un calcio al copertone. Andrew si mise gli occhiali da sole sulla punta del naso, sorridendo rilassato alla rabbia del compagno

-Stai calmo- disse, mentre Ashton continuava a prendere a calci la ruota –Stai calmo, ho detto- Andrew scese e lo raggiunse, mise una mano sulla sua nuca e la fece scendere con calma sulla schiena, seguendo il tragitto di un fascio di luce parallelo alla spina dorsale del ragazzo. Gli intrufolò le dita al di sotto della maglia, la stoffa appiccicata alla pelle si staccò cedevole, il corpo fremette e un brivido di freddo sfidò il calore insopportabile. Avvicinò il petto alla schiena di Ashton e posò il mento sulla sua spalla, gli prese il viso in una mano e glielo girò. Il profilo delicato si ammorbidì a quella carezza, gli occhi azzurri si chiusero sotto il peso dei capelli, le labbra lucide tremarono e si schiusero in un bacio insicuro.

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