Capitolo 27

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Andrew era steso sul suo letto nella sua piccola casa, con la testa schiacciata nel cuscino, cercando di non sentire sua madre che urlava senza sosta. Si alzò debolmente e si sciacquò il viso nel bagno angusto. C'era lo spazio per un lavandino e un gabinetto, le mattonelle erano staccate dal muro e il pavimento era coperto da uno strato di sporcizia. Una finestra rotta si apriva per metà, filtrava un po' d'aria pulita che sollevava la polvere depositata.

Attraversò il corridoio stretto e buio, cercando di non inciampare nelle lattine di birra e nelle siringhe lasciate senza cappuccio. Sua madre era in cucina, con le ginocchia scheletriche per terra, le mani infilate nei capelli che piovevano a ciocche dalla sua testa. Piangeva con la bocca spalancata e beveva le sue stesse lacrime. Gridava in modo straziante, con una voce secca, e si dannava per non riuscire a farsi sentire come avrebbe voluto. Andrew ormai non ricordava più come si piangesse. Si accovacciò verso di lei e la cinse tra le braccia. Quella conficcò le unghie nel suo collo, fino a scavargli la pelle, cercava di ferirlo e urlava ancora.

-Non fare così, mamma. Ci sono qui io. Se dormi un po' passa tutto- la sollevò e la stese sul divano, dopo aver aggiustato un ammasso di vestiti a mo' di cuscino. La coprì con una giacca abbandonata sul tavolo e le prese la mano con cui prima aveva cercato di scorticarlo. La madre con quei pochi gesti si calmò e, come cullata dalla voce del figlio, dalle sue carezze, si addormentò.

Era una donna magrissima, dal viso scavato e ingiallito, gli occhi piccoli come spilli. La pelle era talmente attaccata alle ossa che le vene bluastre ci premevano contro, formando un reticolato geometrico ben visibile. Era stata mangiata dall'eroina, ora giaceva lì, quasi senza vita.

Andrew la guardava morire lentamente. Aveva visto suo padre lasciarlo solo con lei, abbandonarlo quando non aveva più di sei anni, perché non voleva prendersi cura di una donna che ormai non amava più.

Andrew si alzava e si ricordava che la sua vita non era perfetta come voleva far credere. Si guardava allo specchio di quel bagno sporco e cercava di convincersi a sorridere, a uscire da quell'inferno come un vincente, a presentarsi a scuola come il capo della squadra di football che non ha nessun altro pensiero se non vincere la partita e fidanzarsi con la cheerleader più carina.

Aveva fatto credere questo anche ad Ashton e Phoenix. Tutte le volte che la madre era stata in riabilitazione, fingeva che fosse partita per una vacanza. Lei non era mai andata a nessun colloquio, non si era mai presentata a nessuna festa della città e quando domandavano qualcosa sul suo conto, era molto evasivo e tendeva a cambiare discorso.

Accumulava tristezza e delusione, ma fingeva che andava tutto bene. Quella volta non ce l'aveva fatta. Il modo in cui si era comportato Ashton lo aveva definitivamente distrutto. Tutto ciò che voleva da quel ragazzo era un rifugio per dimenticarsi dello squallore, un mondo migliore che gli facesse sentire la gioia di essere ancora vivo. La verità era che né ad Ashton né a Phoenix era mai interessato qualcosa di lui. Era il terzo incomodo, la seconda scelta di entrambi, il "di più". Se avesse mostrato il suo dolore sarebbe stato più interessante ai loro occhi?

Una sola volta, da ragazzino, si era presentato da Ashton con la faccia rotta e i vestiti sporchi di sangue, facendosi promettere di non rivelarlo a nessuno e di non accennare mai più a ciò che era successo in futuro.

Andrew aveva la forza straordinaria di tenersi qualsiasi segreto per sé, di sopravvivere pensando che a nessuno interessasse.

Quello che non sapeva era che a qualcuno interessava davvero. E quel qualcuno era proprio davanti a lui, che indugiava dietro la porta di casa, con l'indice sospeso sul campanello e non si decideva a suonare.

-Ashton.-

Andrew proseguì dritto senza neppure guardarlo. Ashton cercò di stargli dietro, malgrado quello camminasse a passo troppo svelto.

-Aspettami- ansimò, gli mise una mano sulla spalla per fermarlo.

Fu la prima volta che Andrew reagì in quel modo. Si voltò indietro, alzò la mano in aria e lo colpì sulla guancia.

-Perché? Ora non vuoi più baciare Dyana? Non vuoi inseguire Phoenix? Sei solo e mi cerchi?- chiese amareggiato, lo spintonò ancora indietro e mise la fronte sulla sua, schiacciandolo in basso, come a volerlo far sprofondare nell'asfalto –Sai perché ti avevo portato a quella festa? Perché volevo che tutti ci vedessero insieme. Perché non volevo nascondermi. Ma a te non interessa nient'altro che Phoenix. E io sono sempre stato il ripiego. So tutto di voi due, che non mi conoscete minimamente. Sono stanco di essere solo-

-Tu non sei solo- urlò Ashton, preso dalla solita agitazione che assale le persone quando d'un tratto si accorgono di star perdendo qualcosa di prezioso, a cui non avevano dato necessaria importanza –Io voglio te. Ti ho sempre desiderato in quel modo. Non so cosa volessi dimostrare, ma mentre baciavo Dyana non ho mai staccato gli occhi da te. Sono spaventato. È tutto nuovo, io non sono forte come te, io sono...-

-Come sei?- lo fermò Andrew, pacatamente –Sei uno squilibrato fuori di testa capace di compiere un omicidio? Di spaccare la testa a qualcuno solo perché in quel momento ti sta antipatico? Viziato, pieno di te, presuntuoso ed egocentrico? Dimmelo, Ashton. Illuminami su come sei- chiese con un sorriso obliquo e un insolito disprezzo che galleggiava negli occhi –Queste cose le so già. Ormai ti do per scontato- non volle più parlare, Ashton rimase lì, fermo, a guardarlo mentre se ne andava via.

Quando Andrew fu fuori dalla sua visuale, decise di raggiungere Phoenix e Dyana.

Il punto di incontro era in dal professor Daves. Il padrone di casa venne ad aprirgli e seduti al tavolo della cucina c'era anche Isabel, più agitata del solito. Ashton si mise al suo fianco e posò lo zaino sulle sue gambe –Ora mi spiegate perché siamo qui?- chiese, riferendosi alla casa di Ryan.

Quest'ultimo si accese una sigaretta e si sedette difronte a lui, si bagnò le labbra con la lingua e scosse la testa

-Potresti accontentarti di sapere che sono dalla vostra parte. Piuttosto, so che hai qualcosa che potrebbe interessare a tutti noi- evidentemente, Dyana aveva raccontato qualcosa.

-Era nell'ultimo cassetto del comò della stanza di mia mamma. Sono riuscito a prendere la chiave rubandogliela dalla borsa. Se la porta sempre appresso- iniziò a dire, poi frugò nello zaino ed estrasse la camicia bianca sporca di sangue. Aveva il colletto ricamato con due serpenti in oro intrecciati, un pezzo di stoffa all'altezza della pancia era sporco di lucidalabbra rosa secco -Questo mi ricorda qualcuno.-

Isabel arraffò l'oggetto, se lo mise davanti agli occhi e le mancò il respiro. Si alzò traballante e strinse il bordo della sedia.

-Che ti prende?- domandò Dyana confusa, mentre Phoenix sorrideva.

-Dov'eri la notte dell'omicidio, Isabel?- domandò Ryan, con tono fermo e serio.

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