Capitolo 34

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Ashton era sempre stato un ragazzo cupo e distante dalla realtà. Il suo problema era che nel mondo non trovava assolutamente niente di interessante e per cui valesse la pena vivere. C'era solo dolore e disperazione. Non riusciva ad uscire fuori da quel miele amaro e appiccicoso della sua depressione, che lo inghiottiva, come sabbie mobili lo risucchiava sul fondo. E si chiedeva se quello era davvero il fondo, se non ci fosse un modo per scendere ancora più in basso, per quell'allegra legge secondo cui ciò che va male può sempre andare peggio.

Ashton reagiva al dolore riversandolo sugli altri e su se stesso. Un ragazzino macabro e violento, lo aveva dimostrato su Phoenix, lo dimostrava su di sé ogni giorno.

Aveva bisogno di attenzioni, ma cosa c'era di male in questo? Chi riconosce quasi con disprezzo che una persona ha bisogno di attenzioni, e volontariamente gliele nega, è un gran sadico. "Ignoralo, vuole solo attenzioni", detto con così tanto fastidio, come se si volessero spillare dei soldi.

Ashton in quel momento si trovava tra le braccia di Andrew, con gli occhi chiusi e la testa schiacciata sul suo petto, una mano sulla sua spalla per aggrapparsi quanto possibile al suo corpo. La manica abbassata per distrazione mostrava l'avambraccio rosso e seppellito da tagli freschi. Andrew ci posò sopra la fronte e sospirò, continuando a cullarlo.

La morte di suo padre, il tentativo di trovare un capro espiatorio, sua madre chiaramente colpevole di omicidio, un fratello ritrovato che non sapeva di avere. Tutto quello avrebbe potuto far cadere la sua mente già instabile.

La burocrazia non rispetta alcun dolore. Ashton e Isabel avrebbero deposto il giorno stesso dell'arresto di Ellen. Si erano recati in commissariato con Andrew e Ryan e aspettavano il loro turno. La ragazza fu chiamata per prima, si alzò da quella sedia come spinta da una molla.

Isabel sentiva l'ansia annodarle la gola. Era seduta davanti a Frank e un poliziotto che non aveva mai visto. Lo sceriffo di Steeland l'aveva interrogata dopo che lei era andata da loro volontariamente. Aveva raccontato l'intera vicenda, al fianco di Ryan, con la voce tremante. Con quella confessione sarebbe stato facilissimo accusarla dell'omicidio di Bred, ma lei e il professore avevano trovato un halibi perfetto, che la scagionava totalmente. L'unico problema era che avrebbe mandato a rotoli l'immagine del signor Daves.

Fu esattamente questo che raccontò l'uomo ai due poliziotti: quella notte Isabel era venuta da lui, in lacrime. La ragazza aveva ricevuto una marea di chiamate da Bred e aveva finto fosse sua madre, che la invitava a tornare a casa dopo una furiosa litigata. Dai tabulati telefonici si risalì subito al vecchio numero di Bred, che era stato attivo poco tempo prima dello scoppio dell'incendio. Isabel non aveva ucciso Bred, e il testimone a garantire che la ragazza non era tornata indietro per infliggergli il colpo di grazia e cancellare le sue tracce, era proprio il professore. Ryan aveva dovuto ammettere cosa ci faceva Isabel a casa sua, che tipo di rapporto avevano, mettendo a nudo la sua vita privata che si era intrecciata scomodamente con la sua professione.

Frank la ascoltava con le dita delle mani intrecciate, un viso serio, le sopracciglia aggrottate, un'espressione concentrata. Era come se cercasse di carpire dalle sue parole un segreto, una traccia di non detto, qualcosa che stava volontariamente tralasciando.

Subito dopo di Isabel, era il turno di Ashton.

-Sei qui per deporre contro tua madre?- chiese Frank.

-Sono qui per dire la verità- rispose in modo velenoso. Odiava quell'uomo che si era insinuato in casa sua subito dopo la morte di suo padre, o forse anche prima, come una serpe –E per mostrare questa- si mise lo zaino sulle gambe, lo aprì e prese una busta di plastica, dove aveva riposto con accuratezza la camicia sporca di sangue –L'ho trovata in camera di mia madre. Questa era di mio padre. La parte superiore del suo corpo, quando è stato trovato, era nuda. Non so per quale ragione l'avesse lei.-

Frank rimase in silenzio, non disse niente per un bel po' di tempo. Stava interiorizzando la possibilità che la donna che frequentava era un'assassina?

Malgrado tutto, non poté evitare che proprio quel tardo pomeriggio, Ellen Lee venisse arrestata con l'accusa di omicidio.

Phoenix era con Dyana mentre veniva trasmessa la notizia al telegiornale. I due si erano allontanati da soli, in macchina. Volevano rimanere lontani da ogni responsabilità. Lei aveva parcheggiato in un posto più nascosto, dietro la stazione, in uno spiazzo adibito al deposito delle merci pesanti che arrivavano dall'esterno di Steeland. Non c'era niente, solo un chilometro in larghezza e lunghezza di asfalto bruciato dal sole e interrotto da qualche piantina caparbia che spuntava dalle fessure del cemento. Il loro sesso risolveva tutti i problemi. Dyana iniziò a slacciarsi il reggiseno difronte agli occhi di Phoenix, che le mise immediatamente le mani addosso. Afferrò i suoi fianchi come ancore di salvataggio, impresse le dita sulla sua pelle, come a volerle trapassare la carne e congiungere gli indici con i pollici. Quella ragazza bruciava come lava, come uno dei suoi peccati.

-Cosa farai quando Ellen finirà dentro? Come farai a scappare con tutta quella droga? Ci hai mai pensato davvero?- disse mentre ansimava, spingendogli la testa in basso, tra le gambe aperte.

Phoenix le prese una caviglia e gliela portò sullo schienale del sediolino, per poterla sfogliare meglio –Ho un amico che potrebbe aiutarmi a passare indenne la frontiera, e ho già pensato a un nascondiglio una volta fuori- affondò la lingua tra le sue pareti strette e umide, una pellicola calda e scivolosa.

Phoenix voleva scappare, ma aveva lasciato aperta la porta del suo passato, i mostri che pensava di aver ucciso continuavano a perseguitarlo.

Neppure il sesso con Dyana sanò i suoi problemi. Aveva un chiodo fisso in mente, che fu il motivo per cui quella notte camminò a piedi fino a casa di Ashton. Odorava ancora di fumo e sesso, era confuso, ma aveva una meta. Una volta sotto la sua finestra, si mise a lanciare sassolini contro il vetro.

Ashton si affacciò –Cosa ci fai qui? Vai via, è tardi- era ancora provato dall'interrogatorio e dall'arresto di sua madre.

-Per noi non è mai tardi- rise e corse verso il muro, ci posò il petto contro e guardò in alto –Se entro cinque minuti non sei qui, mi metto a urlare e sveglio il vicinato.-

Ashton roteò gli occhi e chiuse la finestra. Si mise una maglia e un pantalone della tuta, scese le scale e aprì la porta di casa. Si avvolse le braccia attorno al corpo, come faceva sempre, in quella posa difensiva. Phoenix gli corse incontro e gli mise le mani sulle spalle, gli fece fare una giravolta e continuò a ridere ad alta voce, malgrado Ashton cercasse di fargliela abbassare.

-Come devo dirti di stare zitto?- rideva anche lui, nascosto dietro la maglia alzata sulla bocca –Si può sapere cosa vuoi?-

-Stare con te- rispose Phoenix, che corse verso la sua moto. Agitò un casco e due secondi dopo sfrecciavano per l'autostrada.

Giocare ad essere felici, quella notte non c'era neppure bisogno di impegnarsi. Stava crescendo una rosa nel deserto dei loro cuori, aveva le radici nel loro amore.

Phoenix andava veloce e Ashton strizzava gli occhi.

-Hai paura?- chiese, accelerando.

-Finché ci sei tu non provo nessuna paura- rispose al suo orecchio, perché potesse ascoltare meglio la sua voce spezzata dal vento.

Con la moto Phoenix raggiunse la cima della collina. Il cielo carico di stelle vibrava su di loro. Scesero entrambi e si sedettero sull'erba.

-Domani avrò il cuore infranto- disse Ashton, accarezzando i fili verdi tra le sue gambe.

-I cuori sono fatti per essere infranti.-

Ashton guardava il ragazzo e si rendeva conto che aveva solo due alternative: rinunciare a lui o a se stesso.

Il corpo scuro e massiccio di Phoenix riluceva sotto la luna. Si sporse in avanti e lo baciò. Lui si ritrasse per qualche secondo, la bocca gli tremava come una farfalla.

Il domani non esisteva. Il problema di trovare un posto nel mondo era sparito. Con la luce del giorno sarebbero morti.

Ashton aveva le lacrime sulle guance, con i mattoni del suo dolore si era costruito una casa. Innamorato della tristezza era tra le braccia di Phoenix, non esisteva altro posto nel mondo per lui.

-Sei mio fratello, non possiamo- stabilì Phoenix.

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