Capitolo XL

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JUGHEAD'S POV
Sono passati 3 giorni.
Lei è viva e sta bene ma non si muove da allora, ne parla, ne mangia. Respira e basta.
Quando l'avevo portata all'interno dell'ospedale l'avevano subito presa e portata via senza dirmi niente lasciandomi li. Solo dopo qualche minuto un infermiere mi disse che mi avrebbe chiamato più tardi.
Intanto erano arrivati mio padre, Alice, Sweet Pea, Archie e Veronica. Erano tutti preoccupati e tutto ciò che riuscii a dire fu che ci avrebbero chiamati. Rimasi seduto in quella dannata sala d'attesa per un'ora e mezza. Solo che era già notte fonda ed eravamo tutti stanchi, fisicamente e psicologicamente. Così rimanemmo solo io, mio padre e Alice. I ragazzi tornarono a casa facendomi promettere di chiamarli appena si avevano delle novità. Soprattutto Sweet Pea. Quei due in qualche oscuro modo erano diventati molto amici, e non stentavo a crederlo in realtà.
Così rimanemmo in tre seduti per altri 45 min: mio padre e Alice dormivano uno sulla spalla dell'altra. Sapevo che c'era stato qualcosa tra loro e l'idea che succedesse ancora non mi infastidì come immaginavo.
Poi finalmente vidi un infermiere con il volto sfinito dal lungo turno avvicinarsi e, dopo aver visto gli adulti che dormivano, mi fece segno di seguirlo. Mi portò giusto pochi metri lontano per evitare di svegliarli.

-è lei il signor Jones?-

-si, sono io- risposi agitato e nervoso

-bene abbiamo trovato il suo contatto nella rubrica della ragazza, che grado di parentela ha con lei?- mi chiese, in fondo era la prassi

-non sono un parente, sono il fidanzato ma qualsiasi cosa la dica anche a me, la prego- dissi con voce implorante

-va bene. Le sue condizioni sono stabili anche se quando è stata portata qui aveva una febbre altissima e la pressione era quasi inesistente. L'abbiamo subito messa sotto flebo per cercare di rianimarla ma qui sta il problema...-

-ovvero?- incitai io impaziente

-è arrivata qui senza conoscenza e fino ad adesso non l'ha ancora recuperata. Siamo riusciti ad avere le sue cartelle cliniche precedenti ed è venuto fuori che aveva già sofferto di una perdita di sensi prolungata a seguito di uno shock; però temo che questo sia più grave. Oltre allo shock c'è stato anche un trauma molto probabilmente, problema andato a sommarsi alle sue condizioni mediche precedenti-

-quindi mi sta dicendo che è in coma?- ormai la mia voce tremava

-purtroppo si. Non sappiamo quanto possa durare e che conseguenze avrà su di lei ma per ora è stabile e non grave.

Poi vedendomi con lo sguardo perso e disperato aggiunse una cosa

-è nella stanza 394 al terzo piano. Può restare una persona alla volta anche non in orario di visita. Si dice che faccia bene parlare alla persona in coma perché riesce comunque a sentire e a percepire. Dunque stia tranquillo e vada a dichiararsi.

Poi si allontanò nuovamente lanciandomi un occhiolino.

Dopo quel momento svegliai mio padre e sua madre a cui aggiornai la situazione, poi ci fiondammo alla ricerca della sua stanza.
La trovammo e io rimasi piantato a terra. Lei era su un lettino bianco, con le braccia piene di tubi e aghi, dove si intravedevano però anche i lividi, e aveva l'ossigeno. Indossava un camice azzurro pastello ed era avvolta in una coperta rossa pesante. Di fianco a lei due flebo gocciolavano lentamente e un fastidioso segnale acustico ci faceva capire che il suo cuore batteva.
Per prima entrò la madre, poi mio padre, che ormai l'aveva presa come una figlia.
Sarebbe toccato a me ma non ce la feci. Così mi allontanai e chiamai tutti.

Ora è mattina, del 6 gennaio. Sono tre giorni che è lì. E come ogni mattina lo sono anche io. Vado a casa solo per dormire due ore per poi tornare in ospedale a vegliarla nonostante non sia mai entrato nella camera. Paura? Preoccupazione? Non so cosa mi trattenga.
So solo che quando voglio spingere quella porta vengo inondato da un senso di panico e ansia indescrivibile e quindi desisto. Tutti mi hanno detto di entrare, perché lei può sentirmi e capirmi. Ma come posso io esserne sicuro? È immobile, respira solamente, ma nemmeno la mia stessa aria. Perché l'unica cosa che riesco a immaginare è lei che mi lascia mentre sono li. E non potrei mai perdonarmelo.

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