Capitolo 2 - Monna Francesca

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Naboli
7 Agosto, A.D. 1192
Terza ora

San Paragorio sembrava risplendere di luce propria, quella mattina.
Addobbata a festa, nella sua imponenza immobile, strizzava l'occhio da lontano al grande castello, che sorvegliava il borgo dall'alto di Monte Orsino.
Da Levante a Ponente, da
Tramontana ad Ostro, ogni angolo, ogni vicolo, ogni contrada, ostentava tutta la magnificenza di cui era capace.
Ogni abitante della città si era fatto il bagno, profumando l'acqua con petali di rose, e aveva indossato il suo vestito migliore.
Dalle finestre delle torri, svettanti verso l'infinito del cielo, pendevano trionfanti gli stendardi dalla croce bianca, quasi accecante, immersa nel rosso porpora delle stoffe, colorate sapientemente dai tintori del terzo carruggio, con le polveri che i mercanti avevano importato da Bisanzio.
Le navi da guerra riposavano sull'acqua cristallina del mare, mentre squilli di tromba, udibili fino ai confini di Savona, annunciavamo l'arrivo di Enrico II del Carretto, in una città che attendeva fremente il suo sigillo, per prendersi a pugni il posto che meritava nella storia.
Gioacchino di Ferruccio del Bottari se ne stava affacciato alla finestra. Se avesse potuto avere a disposizione tutti i pigmenti d'Oriente, forse, non sarebbe riuscito a dipingere appieno la magnificenza che avvolgeva la cittadella.
Eppure, malgrado gli sfarzi, gli stendardi, le trombe, i fiori e il vento che giungeva dal mare, nessuna bellezza riusciva lontanamente ad eguagliare lo splendore della donna che amava, mentre lo guardava sorridendo al di là del piccolo cavalletto in legno di pino.
Bellissima nel suo abito azzurro ornato dai fiori di campo, colti freschi per lei dalle serve del palazzo quella stessa mattina.
E lui, il grande pittore ufficiale, appena insignito dalla nuova repubblica, dall'alto della stanza di quella dama che non avrebbe dovuto amare, posta lassù nella torre quasi terminata della famiglia Ceretti, nonostante gli schiamazzi e i festeggiamenti, non riusciva a staccare gli occhi dall'incanto leggiadro della donna che gli aveva rapito il cuore.
Era un giorno di gloria.
Le campane suonavano tanto forte da rendere difficoltose le parole, trasformando un semplice sorriso nell'unica arma concessagli per dimostrarle il suo amore. Il suo amore proibito, che non poteva essere scorto da altri che da lei, vittima del suo stesso incantesimo.
E così, mentre le sorrideva, finiva di dipingere quel ritratto che lei tanto desiderava, e che lui stesso aveva voluto più di ogni altra cosa nella sua vita, così da garantire ai posteri una bellezza che, ne era certo, sarebbe stata difficile da replicare.
I contorni del viso dalla pelle delicata, rosata come i petali di un fiore appena sbocciato, vellutata come la seta che i grandi mercanti vendevano alle ricche signore su piazza dei tintori, sottile come il canto di un bambino nel giorno di Natale.
Le sue labbra carnose, appena incurvate in un accenno di sorriso, a coprire i denti perfetti, candidi come la neve, mentre un ricciolo castano le ricadeva sulla fronte.
E gli occhi. I suoi occhi liquidi, difficili da dimenticare. Fatti della stessa sostanza di cui era fatta l'acqua del mare.
Uno squillo di tromba la fece improvvisamente tremare.
«Gioacchino, amor mio, è la nostra splendida città che dovreste dipingere.
Oggi nasce la repubblica di Naboli!
Lasciate perdere me e dedicatevi alla bellezza sublime che potete osservare al di là della finestra!» sussurrò, nascondendogli un nuovo sorriso malizioso.
Un altro squillo di tromba.
Gioacchino si sporse dalla torre, guardando dall'alto i Marchesi del Carretto che facevano il loro ingresso sul sagrato di San Paragorio.
Il grande dipinto che gli era stato commissionato dal nuovo Podestà aveva già le linee tracciate. Aspettava solo di essere ultimato con i colori e con i dettagli dell'evento, così da poter garantire imperitura memoria di quel grande giorno d'estate.
Forse avrebbe dovuto essere laggiù, nella chiesa. Eppure non riusciva a separarsi dalla visione angelica del suo amore proibito, illuminata dal primo sole di un agosto particolarmente ventoso.
Fino ai vespri nessun suono di campane e nessun grande signore della stramaledetta Savona, avrebbero potuto strapparlo dall'inesprimibile bellezza di Monna Francesca, che gli sedeva dinanzi.
«Nulla può essere più sublime di voi, mia signora!» Sussurrò, afferrando un pennello dalla tazza di terracotta sbeccata ed intingendolo nei lapislazzuli frantumati e mischiati all'olio di lino crudo, che si espandevano lentamente sulla tavolozza. «E per garantirvi giustizia, dipingerò il più bel ritratto che la storia ricordi!»
Appoggiò piano le setole di maiale sottili sulla tela, riempiendo la traccia segnata a carboncino di un'iride che di lì a poco si sarebbe accesa di azzurro brillante.
La scia di colore prese vita sul dipinto, rispondendo obbediente ai suoi tocchi sapienti.
Quando diede l'ultima pennellata si ritrasse lentamente dal cavalletto, osservando il suo capolavoro con una mano chiusa a pugno sotto al mento.
Poi spostò lo sguardo, puntandolo in quello della donna che non riusciva a trattenere un fremito di impazienza.
E mentre il respiro gli si incastrava a metà della gola, un sussurro gli sfuggì dalle labbra.
«Naboli meriterebbe una donna come voi, mia signora, per tutti i secoli a venire. Solo la vostra bellezza può rendere omaggio alla sua gloria. Per questo dipingo un ritratto che possa sopravviverci e durare per l'eternità.»
Monna Francesca sorrise, nascondendo timidamente la bocca con la mano.
«Lunga vita a Naboli! Che possa sfidare il tempo.» annunciò Gioacchino, alzandosi di scatto dalla sedia e brandendo il bicchiere dei pennelli in una mano, mimando un brindisi tra le risate. «Finché i vostri splendidi occhi saranno visti dal mondo, impressi su questa tela, mia signora, nulla potrà offuscare la grandezza della Quinta repubblica!»

Note:
La giornata, in epoca medioevale, era scandita dalle ore canoniche, che indicavano i momenti delle preghiere comuni dei monaci.
Per un lungo periodo, fino al 1400 d.c. circa (epoca in cui comparvero le prime meridiane) furono la principale misurazione del tempo, non solo nei conventi o nelle chiese, ma anche nei villaggi, ritmando la vita della gente comune.
Si divideva in otto segmenti di tempo:
-Il Mattutino, durante la notte e prima dell'alba.
-Le Lodi dell'alba.
-L'ora prima, corrispondente circa alle nostre ore 6,00.
-La Terza ora, circa le nostre ore 9,00.
-La Sesta ora, circa le nostre ore 12,00.
-La Nona ora, circa le nostre ore 15,00.
-I Vespri, che coincidevano con il tramonto.
-La Completa, che era l'ora prima di coricarsi.
Era un tempo lento, in un'epoca in cui ogni occupazione, dal lavoro nei campi alla copiatura di un manoscritto, richiedeva un impegno manuale prolungato.
Pertanto non si avvertiva alcuna necessità di una suddivisione più minuziosa della giornata.

All'epoca i punti cardinali prendevano nome dai venti, così come era avvenuto in epoca greca e in epoca romana subito dopo.
Nel medioevo, come è ancora oggi, i punti principali erano quattro. Nella lingua letteraria i loro nomi erano: Oriente, Occidente, Settentrione ed Austro. Nella lingua parlata invece venivano chiamati nel modo in cui li ho citati nel testo (Levante, Ponente, Tramontana ed Ostro).
Vi erano poi i venti minori, riprodotti anch'essi nelle rose dei venti: Greco, Maestro, Scirocco e Libeccio (chiamato anche Garbino o Africano).
Nelle rose dei venti di epoca medioevale, pervenute fino a noi, possiamo notare che ogni punto era contrassegnato con l'iniziale del vento di riferimento. Talvolta però il Levante poteva essere contrassegnato da una croce trifogliata e il Tramontana (la tramontana come si direbbe oggi) da un giglio stilizzato.

La donna a cui nessuno riuscì a dipingere gli occhiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora