Capitolo 22 - la sera è giunta

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Eremo del capitano D'Albertis
11 agosto 1995
Ore 21,00

«Mia signora. professore... Dovete svegliarvi, è ora di andare!»
La voce del custode le giunse ovattata tra le strane immagini di un sogno.
Francesca si mosse piano, intuendo il respiro di Massimo farsi più veloce, sentendolo scivolare lentamente fuori dal dormiveglia.
Era rimasta a dormire tra le sue braccia, ancora una volta.
E le sembrò che fossero passati anni dall'ultima volta che aveva riposato così serenamente.
Un milione di domande avrebbero dovuto frullarle nella testa, la ricerca spasmodica di mille risposte avrebbe dovuto tenerla sveglia, e invece, per un tempo che non sapeva quantificare, era riuscita a godere solamente del calore delle sue braccia, e di tutte le emozioni che si portavano dietro.
«È quasi buio, mia signora. Dobbiamo raggiungere monte Ursino.» il custode insistette da dietro la porta.
Francesca sorrise allo sguardo di Massimo, che si stava aprendo nella pochissima luce ancora concessa dalla sera.
«Ciao...» sussurrò.
Lui sorrise. Sorrise come solo lui sapeva sorridere.
«Ciao...»
«Dobbiamo alzarci, Giovanni sembra impaziente.»
Massimo si sedette sul letto, si passò velocemente una mano sulla faccia.
«Arriviamo, Giovanni. Due minuti e siamo pronti.» disse sollevandosi dal materasso e lasciandola ferma a godersi gli ultimi residui del calore del suo corpo, ancora impressi sulle lenzuola.
Lo vide sistemarsi le maniche della camicia, dare un'ultima occhiata poco convinta al colore dei pantaloni.
«Sono terribili, vero?» chiese indicandoli con un dito e con un sopracciglio che si inarcava verso l'alto.
«No, fanno proprio schifo!» gli rispose Francesca ridendo.
«Lo sospettavo...» sollevò le spalle rassegnato, poi infilò le mani nelle tasche e si fermò a guardarla.
Francesca si alzò dal letto, si sistemò i capelli, cercando di incastrarli in una coda di fortuna.
In quel momento avrebbe pagato qualsiasi cifra per avere uno specchio in cui potersi guardare, ma sembrava che Giovanni lo ritenesse un oggetto inutile e superfluo.
I vestiti che le aveva fatto trovare erano decisamente troppo grossi, anche se molto comodi.
Cercò di togliere dalla maglietta le pieghe generate dal sonno, senza riuscirci del tutto, mentre Massimo apriva la porta rivelando la figura del custode che li attendeva sul pianerottolo.
«Venite! Dobbiamo raggiungere il maschio del castello questa notte, entro mezzanotte.»
«Giovanni, la prego, ci dia delle risposte.
Perché deve assolutamente portarci a monte Ursino questa notte? Perché ha detto che quasi tutti i dipinti di Monna Francesca sono andati perduti?»
«Le chiedo scusa, professore. Ma non sono io la stella di questo spettacolo. Io sono solo il custode. Il mio compito è guidarvi là, dove dovete andare. Non posso fare nulla di più. Io non so tutte le risposte. Quelle spettano a lei, e alla mia signora.»
Massimo appariva stanco, malgrado il sonno di cui aveva appena potuto godere.
Sembrava che cominciasse a sentirsi stretta intorno una storia che non aveva trovato riscontri per troppi anni, e che adesso gli piombava addosso, infilandogli in testa nuove domande.
«D'accordo, andiamo!» sussurrò, cercando di ritrovare una pazienza quasi scomparsa e seguendo Giovanni che, con una mossa fulminea, già aveva imboccato le scale.
Quando furono fuori, nella notte tiepida di agosto, i rumori della foresta li abbracciarono come una coperta leggera.
Percorsero una nuova strada tra gli alberi che, secondo i calcoli di Francesca, doveva trovarsi qualche metro più in alto rispetto al sentiero del pellegrino che avevano percorso il giorno prima.
Camminarono per quasi due ore. Il custode ogni tanto indicava loro un punto perso nell'orizzonte scuro, interrompeva il loro silenzio con storie di vecchie piante a cui aveva dato un nome, li metteva in allerta sulle radici che sporgevano dal terreno o sui massi instabili che avrebbero potuto arrestare dolorosamente il loro incedere.
Francesca camminava accanto a Massimo. Ogni tanto gli sfiorava la mano. Lui sorrideva, stringendole le dita per un attimo, prima di tornare a far vagare i suoi occhi nell'oscurità che regnava tutto intorno, rischiarata solo dalla torcia che il custode brandiva in mano come un'arma.
Ad un tratto il terreno cominciò a scendere, gli alberi si diradarono e in alto, sulla piccola montagna di fronte, apparve il profilo scuro dell'antico castello dei marchesi del Carretto, incorniciato dalla luce della luna.
Il maschio di monte Ursino si innalzava dalla terra come l'indice di una mano puntato verso il cielo, quasi a sfidare Dio stesso.
Le luci delle prime barche dei pescatori, partite verso il largo, tremolavano sull'orizzonte del mare.
«Siamo quasi arrivati, mia signora. Il castello in cui è nascosto il segreto è proprio laggiù, di fronte a noi.» sussurrò il custode nell'oscurità.
Ogni tanto Francesca aveva la sensazione che quello spiritoso vecchietto parlasse per enigmi di proposito.
Per ampliare l'effetto magico della storia che si erano ritrovati a vivere, semmai davvero ce ne fosse stato bisogno.
«Non te l'ho mai fatta pagare abbastanza per avermi fatto provare una paura fottuta, ieri mattina, a monte Ursino.» disse Francesca a Massimo che trafficava con l'accendino nel tentativo di dare una boccata al sigaro.
«E io non ti ho insultata abbastanza, per avermi sbattuto in faccia una leggenda che avevo impegnato tutta la vita a provare ad etichettare come la semplice follia di mio nonno, e di tutti quegli stramaledetti vecchi del paese.»
Francesca rise.
«Non fare il cretino! Vedo benissimo che questa storia ti eccita come nient'altro al mondo!»
«Come quasi nient'altro al mondo...» le rispose lui, sfidando il buio fitto per stilettarle negli occhi uno sguardo carico di fuoco.
Francesca ringraziò l'oscurità in silenzio, per nascondere il rossore che sentiva scottarle sulle guance.
Cosa aveva quell'uomo, capace di annientare ogni sua ragione?
E poi era così assurdo. Lui era sposato, lei stava per sposarsi. Ma cosa diavolo stavano facendo?
Eppure lo amava, ne era convinta.
Lo amava di un amore che non aveva mai provato in vita sua.
Una strada magnanima interruppe i suoi pensieri, cominciando a salire irta verso la cima del monte.
«Professore, ha dietro tutto ciò che le ha lasciato suo nonno, ne è sicuro?» chiese Giovanni.
Massimo annuì nella luce lattiginosa della luna. Francesca vide le sue labbra incresparsi, forse alla ricerca di un'altra risposta che nessuno gli avrebbe dato.
Poi ci ripensò, lasciando che il custode fornisse loro nuove istruzioni apparentemente senza senso.
«Benissimo, entrate nel vecchio castello, raggiungete il maschio. Il mio percorso si ferma al portone. Non vi seguirò dentro.»
«Perché?» domandò Francesca senza pensare.
«Mia signora, mia splendida, nuova Monna Francesca, vi ho detto che il custode controlla la purezza degli eletti, prima di condurli dove devono andare, ricorda?» fece una pausa sorridendole. «Ma chi controlla il custode?»
Francesca fece un cenno di assenso del capo.
«Io non posso e non voglio entrare, mia signora. Io sono il custode, custodisco il segreto, ma non è il mio segreto. È il vostro! Il mio compito è fare in modo che voi sappiate cosa si cela sotto la Quinta repubblica, non vederlo! Solo voi dovete sapere.»
Francesca fece per parlare, per dirgli che era assurdo non fidarsi di un uomo che aveva dedicato la vita a difendere la loro leggenda. Poi ci ripensò. Concedete ad un vecchio le sue passioni, così le aveva detto quella mattina. Il segreto era la sua passione, e lui lo avrebbe protetto esattamente come lo aveva fatto suo padre, e il padre di suo padre prima di lui.
Qualsiasi cosa lei avesse tentato di dirgli.

La donna a cui nessuno riuscì a dipingere gli occhiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora