Capitolo 20 - l'eremo del Capitano D'Albertis

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Eremo del capitano d'Albertis
11 agosto 1995
Ore 11,45

Le finestre bianche con le persiane perfettamente restaurate, si affacciavano sul bosco fitto, creando un contrasto che aveva dell'irreale. Una piccola porta spiccava subito accanto alla roccia nuda su cui la casa era stata edificata, nascondendo un ingresso che le sembrò sproporzionato rispetto alla grandezza della costruzione.
Un albero immenso si innalzava davanti ai vetri delle finestre rivolte verso il mare, e sembrava che le sue fronde fossero state tagliate in modo da poter aprire gli scuri.
Il legno con cui era rivestita la facciata doveva essere blu, un tempo. In quel momento alcune scrostature gli regalavano un aspetto solo apparentemente trasandato, mimetizzando meglio la casa con il bosco.
Il tetto era spiovente, rivestito di ardesia, e sembrava che dalla sua finestra, posta nel punto più alto, fosse possibile vedere il mare.
«Per di qua, mia signora, prego. Professore, anche lei, venga dentro!» disse Giovanni infilando una piccola chiave nella toppa e spingendo la porta verso il centro della stanza.
L'interno era composto da un grande ambiente, sul cui lato cieco si aprivano due porte che probabilmente conducevano ad altre stanze della casa.
Sul fondo c'erano due finestre che facevano filtrare la luce del sole e, poco prima, una scala a chiocciola, che sembrava fatta di legno nautico, saliva verso il soffitto per approdare al piano di sopra.
Pochi mobili in stile marinaro facevano apparire vissuta quella casa nascosta sulla collina: un divano di pelle marrone, una lampada da terra che sbucava dietro al suo schienale e una libreria stracolma di libri, di carte nautiche e di oggetti dai colori più disparati, tappezzava quasi completamente la parete intorno alle finestre sul lato sinistro, donando all'ambiente il tipico odore di carta delle biblioteche.
C'era un tavolo con quattro sedie, posto sotto un lampadario di latta blu che pendeva dal soffitto, con un piccolo vaso di vetro che custodiva nel centro un fiore selvatico appena reciso.
Il custode era un'anima romantica, Francesca ne era certa.
Così abituato alla solitudine da fare di tutto per renderla tollerabile.
«Cos'è questo posto, Giovanni?» chiese Massimo mentre le stava in piedi accanto, e si ostinava a non lasciarle la mano.
Francesca non sapeva se fosse solo un innato senso di protezione del pittore verso la sua dama ma, dalla notte prima, si era concessa il lusso di pensare che fosse qualcosa di più.
«È l'eremo del capitano D'Albertis. Nel 1912 comprò questo terreno, quando ormai non era più in grado di navigare per mare, e ci costruì una casa lontana dal mondo. Dopo la sua morte cadde in stato di abbandono, e tutti si dimenticarono di questo posto. Mio padre lo trovò quando io ero piccolo. Ci trasferì la dimora del custode, abbandonando la casupola di fortuna che aveva costruito poco più in su, sulla montagna. Tutti gli aggiustamenti e i confort sono opera mia, invece.»
«Ha fatto un lavoro eccelso, Giovanni.» asserì Massimo, guardandosi intorno e generando una scintilla di orgoglio negli occhi del custode.
Massimo era così. Francesca aveva imparato a capirlo. Sempre pronto a regalare un'emozione.
Forse amava quell'uomo. Ed era una pazzia, visto che lo conosceva da poco più di ventiquattro ore. Ma era una pazzia alla quale lei non aveva voglia di ribellarsi.
Malgrado il suo futuro marito che la attendeva a Milano, malgrado la sua splendida vita già programmata, già farcita di tutti i progetti che aveva sempre creduto di desiderare.
E poi era arrivata Noli, e con Noli era arrivato Massimo. E lei stava mettendo in discussione tutto quello in cui aveva sempre creduto.
Era un uomo adulto. Troppo adulto.
E lei era solo una ragazzina, diventata grande appena qualche minuto prima.
Eppure non riusciva a sopire quel tumulto nel cuore, ogni volta che lui le passava accanto e che, per sbaglio, per fortuna o per calcolo, accidentalmente le sfiorava la mano.
«Accomodatevi, prego!» disse il custode indicando loro il tavolo. «Avrete fame! Ho visto che, da ieri mattina, non avete mangiato altro che crackers rinsecchiti!»
Francesca non sapeva se sentirsi grata o infastidita dal fatto che erano stati seguiti per un giorno intero, senza che nessuno dei due si rendesse conto di nulla.
Ma in quel momento niente avrebbe potuto distrarla dalla promessa di cibo decente che quell'uomo si era appena lasciato scivolare fuori dalle labbra.
Massimo non se lo fece ripetere e prese posto su una sedia. Era stanco, glielo poteva chiaramente leggere negli occhi.
«Aspettate qui, torno subito! Ho comprato pane, salame, formaggio e vino. Sua nonna amava il Pigato, mia signora. Mi sono permesso di acquistarne una bottiglia per lei, nell'enoteca giù in paese.»
Un sorriso di affetto sfuggì dalle labbra di Francesca, mentre l'immagine di sua nonna, seduta sotto l'ombrellone a bere vino bianco, la colpì come avrebbe fatto uno schiaffo.
Giovanni era di una dolcezza disarmante.
Lo sentirono armeggiare in quella che doveva essere la cucina, per poi vederlo riapparire pochi istanti più tardi.
Teneva in una mano una selezione di salumi legati con i cordini tipici degli insaccati, due mezze forme di formaggio che ad un primo sguardo potevano sembrare tome, e nell'altra un sacchetto che emanava un meraviglioso profumo di pane.
Poggiò il cibo sul piano di legno, senza troppe cerimonie. Estrasse tre bicchieri da un mobile che apparì magicamente da sotto la libreria, prese un cavatappi dalla tasca e cominciò una piccola lotta con la capsula della bottiglia, dalla quale uscì vincitore pochi secondi più tardi.
Versò il vino nei bicchieri, poi sollevò il calice verso l'alto.
«Dio benedica la dama, benedica il pittore e benedica la Quinta repubblica!» disse con lo sguardo rivolto verso un punto indefinito della stanza.
«Perché non viene mai aggiunto il custode, in questo augurio? Mi sembra che la sua figura, Giovanni, sia importante quanto le nostre!» disse Francesca, facendo tintinnare il calice con il suo.
«Siete gentile, mia signora, e avete ragione. Ma vedete, se voi in questo momento vi dirigeste da un qualsiasi vecchio di Noli, di quelli nati e cresciuti lì, e provaste a dirgli a voce alta "Dio benedica la dama", lui proseguirebbe senza esitare con "benedica il pittore e benedica la Quinta repubblica". E sapete perché?» chiese ridendo.
Francesca scosse la testa, aspettando la risposta.
«Perché ci sono solo sempre due persone al mondo a conoscere l'esistenza del custode. E queste due persone sono il pittore e la dama. In questo momento, gli unici sulla terra a sapere della mia esistenza, siete voi.»
«Quando dice che solo due persone al mondo conoscono l'esistenza del custode, intende che anche la Monna Francesca o il pittore precedente possono conoscere l'esistenza del custode, quindi in realtà, in qualche momento della storia, avrebbero potuto essere quattro.» si intromise Massimo.
«No professore, vede, Monna Francesca scopre di essere chi è, solo dopo che quella precedente è passata a miglior vita. Non possono esserci due dame di Noli. E il pittore conosce il soggetto del suo quadro solo nel momento in cui gli sarà possibile dipingerlo. Il pittore precedente non farà mai parola del custode con il suo erede, finché sarà in vita. Non chiedetemi spiegazioni razionali su come il tempo di tutto questo sia sempre riuscito ad incastrarsi alla perfezione, non so darvi questa risposta. Ma ho smesso di stupirmi dei miracoli molto tempo fa, quando mio padre mia ha raccontato per la prima volta questa storia. Ed oggi, vedendo la donna della leggenda apparirmi effettivamente davanti, non solo ho smesso di stupirmi, ma ho cominciato a crederci ancora più fermamente.» abbandonò gli occhi di Massimo per cercare quelli di Francesca. «Per questo vostra nonna non vi ha mai detto nulla, mia signora. Non poteva!»
Lei dischiuse la labbra.
«Però vi ha addestrata. Ogni dama può scegliere come tramandare il segreto alla successiva.» disse sorridendo.
Francesca non sapeva fare altro che muovere il capo impercettibilmente.
«Mi scusi, Giovanni, ma ho ancora una domanda...»
«Sono qui per servirvi, mia signora!»
«Perché ci ha fatto trovare gli indizi? Se sapeva chi eravamo io e Massimo da subito, perché non è venuto a prenderci semplicemente in città e non ci ha portati qui per raccontarci tutto?»
Il custode si abbandonò sulla sedia accanto al tavolo, posò il bicchiere di vino ed incrociò le mani sulla pancia prominente.
«Aspettavo questa domanda, Monna Francesca. E la aspettavo per potervi raccontare meglio cos'è che state cercando e che siete stati chiamati a proteggere.» inspirò profondamente, mentre sanciva a Massimo il permesso di accendere il sigaro che lui, con un gesto di consuetudine, gli aveva appena domandato di poter fumare.
«Noli ha dominato i mari per oltre seicento anni. Ha combattuto le crociate, ha percorso rotte piene di terre ricche e misteriose. Le sue navi tornavano cariche dei tesori più meravigliosi che l'uomo avesse mai potuto immaginare. Dopo il 1400 non era forse più la potenza invincibile di un tempo, ma ha continuato a commerciare con l'Oriente, senza soluzione di continuità fino al 1797, anno in cui Napoleone Bonaparte conquistò l'Italia, strappando a Noli il suo titolo di città autonoma e indipendente. Ecco, voi conoscete la nomea che i liguri si sono fatti negli anni, vero?» domandò guardandoli di sottecchi.
«Quella di essere un pochino tirchi?» chiese Francesca.
«Esatto, mia signora! E sa da dove deriva quella nomea?»
Lei scosse la testa e vide Massimo fare altrettanto. Quasi non riusciva a crederci. Il professore ignorava qualcosa che riguardava la sua terra.
«Ecco, quella leggenda deriva dal fatto che Noli continuò ad accumulare ricchezze, per secoli, secoli e secoli, senza mai spendere nemmeno un milionesimo di quello che conservava nei suoi infiniti sotterranei.
Probabilmente, in questo esatto momento, Noli è tanto ricca da poter comprare senza problemi mezza Europa. Solo che nessuno lo sa, tranne me.»
Massimo quasi balbettò per lo stupore.
«Vuole dirmi, Giovanni, che sotto la città sono conservati alcuni cimeli risalenti all'anno mille?»
«No, professore. Voglio dirle che Noli possiede dei sotterranei segreti che si snodano per tutta l'ampiezza della città e che sono alti all'incirca nove metri, pieni dalla terra al soffitto di cimeli che vanno dal primo secolo dell'anno mille, fino alla fine del 1700!»
Massimo spalancò la bocca per lo stupore.
«Ci saranno pezzi dal valore artistico e storico inestimabile, là sotto! Ci sarebbe da studiare per una vita intera, e una vita sola non basterebbe! Si potrebbero capire aspetti del medioevo che ancora ci risultano segreti! Si potrebbe apprendere...»
«Ecco, vede? Io vi ho appena parlato di un tesoro che potrebbe rendere un solo uomo più ricco di un'intero stato del primo mondo, e lei cosa mi risponde, professore?» fece una pausa, guardando Massimo con affetto. «Lei mi parla di studio, di ricerche. Vedo i suoi occhi brillare. E non per i quintali di oro e pietre preziose che sono ben nascosti poco sotto il nostro sedere, ma per la conoscenza che potrebbero garantirle.»
Francesca si sentiva incapace di parlare.
«Voi capirete che un segreto come questo non può essere messo nelle mani di chiunque. Un segreto come questo va protetto da qualcuno che ami la storia, se possibile che la conosca ma, soprattutto, che la capisca e che la rispetti!»
Francesca e Massimo lo guardavano con gli occhi immobili. Sembrava che improvvisamente, dentro la casa nascosta, il tempo si fosse fermato.
«La leggenda è saggia, professore. C'è un motivo per cui i custodi si avvicendano di padre in figlio. Serve a garantire una continuità di guardia. Non se ne hanno notizie certe, ma tra i miei avi si è tramandato oralmente di un pittore che non si fu rivelato degno di assolvere al suo compito. Il custode lo osservò crescere, lo osservò diventare uomo. E in lui notò semplicemente una fame di potere e di ricchezze. Conobbe la Francesca del suo tempo, e insieme giunsero davanti al percorso. Riconobbe lo stemma della Quinta repubblica e proseguì fino a San Lazzaro, lì trovarono il loro indizio e il pittore cominciò a dare segni di impazienza. Vagò con la sua dama sul sentiero del pellegrino, cercò Santa Margherita per giorni. Alla fine, quando la raggiunse e non trovò niente, si spazientì, cominciando ad assestare calci alle pietre della chiesa. Il tesoro, voglio il mio dannato tesoro! Urlava tra la boscaglia.
Il custode li seguiva, così come tutti i custodi hanno seguito i prescelti. Vide la bramosia nei suoi occhi e l'aridità nel suo cuore. Quando il pittore tornò in paese si affrettò a dipingere la sua dama, sperando che un qualche miracolo potesse compiersi, ma non accadde nulla. Il dipinto che fece viene ricordato da noi custodi come la Monna Francesca triste.» fece una pausa, sorridendo amaramente. «Io non so se sia vero o se sia solo un racconto tramandato per convincere ogni nuovo custode ad affrontare la follia della propria vita, la Monna Francesca triste è andata persa, come quasi tutte le altre, ma questo è quello che mi è stato raccontato da mio padre, quello che io ho raccontato a mia figlia e a mio nipote. Mi è stato detto di controllare, di vegliare sul segreto di Noli. E io l'ho fatto. Non mi sono mai posto domande né mai lo farò.»
«Cosa vuole intendere quando dice che la Monna Francesca triste è andata persa come quasi tutte le altre, Giovanni?» lo interruppe Massimo, riducendo gli occhi a due fessure e frugando nel suo sguardo.
Il custode rise, reclinando la testa all'indietro e dando un altro generoso sorso di vino.
«Lei è un uomo attento, professore!» staccò un pezzo di pane con un morso, si infilò in bocca una fetta di salame.
«Dormite, adesso... Sarete stravolti. Il vostro percorso non è ancora finito!» si alzò dal tavolo. «Sopra c'è una piccola stanza con un letto morbido e con le lenzuola pulite. Riposate lì, mia signora.» disse puntandole addosso un sorriso. «Per lei professore non ho altro da offrire che un divano un po' bitorzoluto, ma troverà una coperta pulita e un cuscino. La stanza è grande, potrete dividerla senza problemi. Ma se preferite, mia signora, cederò la mia al professore ed io riposerò qui, sul divano del salotto.»
«Va benissimo la stessa stanza!» Francesca si rese conto di avergli risposto con troppa enfasi.
E si diede mentalmente della stupida.
Lei non voleva lasciare Massimo. Voleva tenerlo accanto, voleva sentire il suo respiro.
Per un attimo tentò di auto convincersi che la sua presenza la faceva semplicemente sentire tranquilla, poi smise di mentire a sé stessa.
No, lei non voleva sentirsi tranquilla. Lei era quasi convinta di essersi innamorata di lui.

La donna a cui nessuno riuscì a dipingere gli occhiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora