Capitolo 4 - il richiamo del monte

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Naboli
10 agosto A.D. 1242
Ora prima

Serafino vagava per i vicoli. Quell'estate sembrava non avere alcuna intenzione di lasciare scampo, stringendo la cittadella in una morsa asfissiante di afa umida.
Le navi da guerra riposavano ancora placide sulle acque del porto, mentre marinai, soldati e garzoni dei mercanti si affaccendavano sulla banchina invasa di pescatori, trasportando merci, bevendo vino o cercando l'ultima carezza di una donna, prima di prendere il mare senza sapere quando avrebbero fatto ritorno, o di tornare alle faccende di casa di una nuova giornata estenuante.
L'alba non era ancora sorta del tutto, eppure il tanfo putrido della contrada dei tintori già impregnava l'aria accanto alla foce del ruscello.
Serafino avrebbe speso tutte le monete che aveva in tasca per garantirsi un minimo di refrigerio. Per un attimo pensò di uscire dalla città, di incamminarsi sulla costa e di trovare un angolo di acqua limpida in cui potersi immergere fino alle ginocchia. Poi scacciò velocemente il progetto dalla testa. Il podestà gli aveva commissionato alcune vedute del porto, da appendere nella grande sala di palazzo del governo che sarebbe stata terminata dal capo mastro, di lì a qualche settimana.
Lui era il pittore della repubblica, così come lo erano stati suo padre e suo nonno prima di lui. Era diventata una tradizione di famiglia, anche se, a dirla tutta, non sapeva bene come questo fosse potuto accadere, visto il putiferio che suo nonno aveva scatenato, non presentandosi al conferimento del sigillo, il giorno della consacrazione di Naboli come Quinta repubblica.
In città ancora si parlava di quell'infausto avvenimento, e la sua famiglia era stata bersaglio degli scherzi più spiacevoli, soprattutto giù, nel cantone dedicato ai vizi, vicino al porto.
Il vecchio podestà aveva concesso un perdono inaspettato a suo nonno, non appena aveva visto il ritratto di Monna Francesca, figlia di Pietro Cerutti, risplendere alla luce del sole.
Lo aveva voluto per se. Lo aveva appeso nelle sue stanze del castello sul monte Orsino, e solo ad alcuni eletti era stato dato di vederlo ancora.
Lui lo aveva scorto, un giorno. Era entrato nelle stanze private per visionare una grande parete da adornare. Ci era passato davanti ed era rimasto senza fiato.
Effettivamente non aveva mai visto nulla di simile. Gli occhi di quella dama, impressi sulla tela, erano tanto splendenti da averlo costretto ad accartocciare le palpebre.
Era bravo suo nonno! Sapeva tenere in mano un pennello come nessun altro al mondo. Ma quella dama, quella splendida, leggiadra creatura che era stata impressa sulla tela, lei sì, era diventata leggenda. Almeno per i pochi a cui era concesso il lusso di poter scorgere i suoi occhi fatti di acqua di mare.
Ogni donna avrebbe voluto vantare il suo sguardo liquido, impossibile da dimenticare. Ogni uomo avrebbe voluto poter godere di una vista tanto leggiadra, in carne ed ossa.
Tutti quei pensieri gli frullavano per la testa, mentre vagava per i carruggi del porto, cercando un soggetto che potesse essere abbastanza affascinante da aggraziare la vista del Podestà capriccioso, che da poco aveva deciso di rendere più magnifico il vecchio palazzo in cui si discuteva della sorte degli uomini.
Improvvisamente fu colto da un'ispirazione. Alzò lo sguardo verso il monte che dominava la città, con il suo castello maestoso, eletto a residenza dal suo committente e appartenuto un tempo ai marchesi del Carretto, prima che Naboli si prendesse a spallate il posto che meritava nella storia.
Maledetti loro e maledetta Savona che continuava a inviare emissari pieni di boria!
Però qualcosa di buono, i savonesi vigliacchi, lo avevano fatto. Avevano edificato il forte sulla collina. E da lontano, dove le acque del mare diventavano di un blu profondo, il maschio annunciava a chiunque la grandezza della Quinta repubblica.
Serafino aveva capito come onorare a dovere la stanza del consiglio di palazzo del governo. Avrebbe consegnato al Podestà il bozzetto di una veduta dall'alto, che abbracciasse il porto nella sua interezza, con il promontorio, che assomigliava ad un grosso animale addormentato sull'acqua, a fare da sfondo alla magnifica ricchezza di Naboli.
La stessa vista di cui egli stesso poteva godere, svegliandosi ad ogni sorgere del sole.
Si arrampicò sulla collina. Il caldo non gli dava tregua, ma era convinto che quella fosse l'idea che avrebbe fatto perdurare la grazia che i podestà avevano sempre concesso alla sua famiglia.
Quando giunse in cima sentì il suo stesso fiato pesante, intervallato dai battiti di un cuore che sembrava volergli balzare fuori dal corpo.
Raggiunse il primo girone di mura e si affacciò dal precipizio.
Aveva ragione! Quella vista sapeva generare meraviglia.
Di colpo un rumore sordo alle spalle lo fece trasalire.
Si girò di scatto, mentre malediceva se stesso per essersi avventurato da solo, senza un'arma, fino ai confini poco sorvegliati della città.
Quando il podestà non era lassù, anche il suo esercito era assente.
La stramaledetta Savona non aveva mai digerito il potere che aveva dovuto concedere alla repubblica, e continuava a mandare mercenari alle sue porte, nel patetico tentativo di riprendersi ciò che mai più sarebbe stato suo.
Guardò tra le foglie. Un nuovo movimento lo mise ulteriormente in allerta.
Poi vide una figura emergere dagli alberi, e proprio mentre allungava il passo, cercando di scappare, una giovane donna gli apparve davanti, avvolta da una stola di seta azzurra dalla fattura impeccabile e con il vestito pieno di rami e foglie secche.
Serafino si inchinò immediatamente, mostrando il rispetto dovuto da un semplice pittore ad una dama di alto rango.
«Le porgo i miei rispetti, madonna.» disse guardando il terreno accanto alle sue scarpe.
«Perdonatemi messere, non era mia intenzione spaventarvi. Alzatevi, vi prego!»
Serafino obbedì immediatamente. Sollevò la testa e puntò gli occhi con timore malcelato in quelli della dama.
In quell'esatto momento Serafino pensò di essere stato catapultato in un sogno.
Non era possibile. Davanti al suo sguardo attonito, se ne stava in piedi una donna, dalla bellezza angelica e con due occhi liquidi, impossibili da dimenticare.
Era la donna del dipinto di suo nonno!
Ogni cosa di lei era uguale al ritratto. La pelle sottile, rosata come i petali di un fiore appena colto, i riccioli scuri che facevano capolino dal copricapo, le labbra carnose. E gli occhi. Due occhi fatti di acqua di mare.
«Vi sentite bene, messere?» la donna parlò, interrompendo il suo stupore.
«Vi chiedo scusa, madonna... è che...» le rivolse un nuovo sguardo. «Ma voi siete ferita, mia signora!» esclamò, notando che una chiazza di sangue si stava allargando sulle vesti della dama, all'altezza del ginocchio.
«Vogliate perdonarmi, ma devo tornare in città. Mi sono avventurata fin qui per godere del paesaggio. Sono stata avventata, lo so. Ma sembrava un desiderio impossibile da sopire... non so spiegarvi meglio, messere.» fece una pausa, lasciando vagare lo sguardo sulla città. «Questa mattina mi sono destata sul finire delle Lodi, ed è stato come se l'Altissimo mi parlasse, mi dicesse di salire al monte Orsino e di raggiungere il castello... vi sembrerò una povera folle!» disse arrossendo e coprendosi il viso con la mano. «E adesso sono inciampata, e la gamba mi duole!»
«Chi siete, madonna? Se vorrete dirmi il vostro nome, sarò lieto di scortarvi fino alla casa di vostro padre, dove il cerusico potrà porre fine al vostro dolore!» disse Serafino, rivolgendole un nuovo inchino.
«Il mio nome è Monna Francesca, figlia di Ugolino di Giuseppe Querci.»
Serafino tremò impercettibilmente.
Ugolino di Giuseppe Querci era uno dei più potenti mercanti della città. E Monna Francesca, la dama che aveva dinnanzi, era la nipote della donna che suo nonno aveva dipinto molto tempo prima.
«Seguitemi, mia signora. Vi condurrò senza indugio verso la città!» disse prostrandosi.
«Siete gentile, messer...?»
«Serafino di Francesco del Bottari, pittore della repubblica, per servirvi!» si inchinò più profondamente. «Perdonatemi, madonna. Sono stato assai scortese nel non rivelarvi da subito il mio nome.»
«Stimatissimo pittore, non colpevolizzatevi! Anzi, sono sicura che mio padre vi ricompenserà a dovere per il servigio che gli state offrendo, riaccompagnandomi verso casa. Ditemi, quale dono può essere grato al vostro cuore? Sarò felice di intercedere per voi.»
Serafino si sentì mancare il respiro. Le monete del mercante non gli interessavano. In quel momento solo una cosa avrebbe voluto. Solo una.
Riempì di fiato i polmoni, pregando Dio perché gli concedesse la grazia di non commettere un passo falso e di non venir messo alla gogna per la sua impudenza.
«C'è una cosa che vorrei più di ogni altra, mia signora.»
«Non esitate, ditemi come potrò ricompensare la vostra cortesia!»
Serafino abbassò gli occhi, cercando un coraggio difficile da trovare.
Poi li rialzò. Lì punto in quelli della dama, fatti di una sostanza purissima e impalpabile.
«Nulla mi renderebbe più felice di dipingere un vostro ritratto, Monna Francesca!»

La donna a cui nessuno riuscì a dipingere gli occhiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora