Capitolo 23 - bambina bella

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Castello di monte Ursino
11 agosto 1995
Ore 23,30

Massimo estrasse dalla tasca le pesanti chiavi di ferro che si portava dietro, come un feticcio, da tutta la vita. La infilò nella serratura del portone e lasciò che il rumore metallico generato dall'apertura importunasse il silenzio della notte.
Monte Ursino era sempre lo stesso, con le sue rovine affacciate a strapiombo sul mare.
Nello spiazzo che un tempo era stata la corte dei signori del Carretto, un cumulo di macerie si accatastava negli angoli, donandogli un'aria spettrale al chiarore pallido della luna.
Il maschio era più in alto, all'interno del secondo muraglione di cinta, come si confaceva ai tipici castelli medioevali. Un primo muro abbracciava la corte in cui si svolgeva la vita di tutti i giorni. In alcuni, quelli più grossi, era proprio una piccola città all'interno della fortezza. Ma in quello no. Quello era solo un piccolo forte di avvistamento, arroccato sulla collina che sovrastava il mare.
Un secondo muraglione proteggeva invece la dimora dei signori.
Era un sistema usato per garantire agli assediati maggiori possibilità di salvezza, anche se, da quanto sapeva, quel piccolo castello non aveva mai dovuto subire quel tipo di attacco.
Raggiunsero il cuore del forte, superando il passaggio sotto il grande arco semi diroccato, da cui un tempo entravano i cavalli dei nobili che, nei secoli, avevano eletto monte Ursino a loro residenza.
Il secondo giro di mura, se possibile, sembrava ancora più malmesso del primo.
Una piccola scala, sulla destra, conduceva ad un primo torrione.
Per arrivarci si passava davanti ad un'antica feritoia, progettata ad arco da un vecchio ingegnere dall'anima poetica, che l'aveva costruita in modo da farle incorniciare perfettamente l'isolotto di Bergeggi in lontananza.
Per un attimo pensò di indicarla a Francesca, ma sarebbe stata semplicemente una perdita di tempo, vista l'oscurità densa che aleggiava sull'acqua.
Raggiunsero il primo piano, costeggiando le mura. In questo modo stavano salendo per poi discendere verso la base del maschio, ma Massimo aveva imparato a sue spese che quella era la via più sicura.
Il suo ginocchio destro portava ancora, indelebile, il ricordo della caduta sui pietroni accatastati nel centro, in quello che una volta doveva essere l'ingresso del castello.
Scesero di nuovo verso il basso, cercando di sopravvivere ai resti di un'antica scala che contava più buchi che gradini. Francesca gli camminava dietro, in un silenzio curioso per il suo carattere espansivo.
Ogni tanto perdeva leggermente l'equilibrio e lui percepiva le sue mani appoggiarglisi sulla schiena. E ogni volta si scopriva a tremare. Come avrebbe tremato un ragazzino alla prima cotta, dandosi mentalmente del cretino.
Arrivarono alla base del maschio. La porta di legno era scampata al potere dei secoli, anche se Massimo sospettava che un rimaneggiamento del tardo seicento ne fosse l'artefice invisibile.
Estrasse ancora una volta il mazzo di chiavi dalla tasca. Con un nuovo rumore lasciato scivolare nell'immobilità de buio, la porta si aprì verso l'interno della torre, rivelando una scala che girava arroccata ad una parete spessa almeno un metro.
«Fai attenzione! Anche qui, come prima, alcuni gradini sono andati distrutti. Solo che cadere adesso potrebbe essere l'epilogo triste di una leggenda durata per quasi mille anni.» disse a Francesca, illuminandole il volto con il fascio di luce della torcia.
La vide ridere per un attimo per poi fargli cenno di proseguire.
La scala saliva ripida, nel modo tipico di costruire dei primi decenni dell'anno mille, fino a raggiungere uno dopo l'altro i due piani della torre e lasciando una voragine cilindrica nel centro.
Il primo era spoglio, con due feritoie sui lati dalle quali, di giorno, sarebbe stato possibile vedere il mare. Il secondo e ultimo era a pianta circolare, come il primo, ma le pareti erano più rifinite, con alcune nicchie che si inseguivano una accanto all'altra.
I resti dei vecchi chiodi arrugginiti, ai quali un tempo erano appesi i ritratti, se ne stavano lì, ad aspettare che la torre cadesse e che si portasse semplicemente via il ricordo di qualcosa che tutti conoscevano e che nessuno aveva mai visto.
Sul fondo, esattamente dal lato opposto rispetto all'imbocco della scala, c'era una nicchia più piccola delle altre, dove Massimo era sicuro che un tempo ci fosse il primo ritratto di Monna Francesca.
Sembrava una rifinitura fatta in epoca successiva rispetto all'edificazione del castello stesso. I mattoni erano leggermente diversi da quelli che le stavano intorno. Stesso materiale ma differente taglio. Probabilmente era stata costruita quando la leggenda si era rivelata e qualche potente dell'epoca aveva deciso di alloggiare lì le dame di Noli apparse nei secoli, garantendo alla prima il rango che meritava.
«Adesso cosa facciamo?» chiese Francesca guardando il mare di pietre e il buio che avevano intorno.
«Non ne ho idea. Sarò venuto qui almeno cinquecento volte, negli anni. Ogni tanto apro il castello, principalmente per qualche appassionato di storia che mi chiede di visitarlo. Ogni volta ho cercato qualcosa, ma non ho mai trovato nient'altro. Solo mattoni di pietra.»
Francesca si passò nervosamente una mano tra i capelli, sciogliendo la coda per rimetterla al suo posto subito dopo.
Poi si avvicinò ad una feritoia, lasciando vagare lo sguardo sul mare nero tutto intorno.
Massimo la raggiunse, le sfiorò la schiena.
In quel momento, in lontananza, la campana della chiesa di Noli suonò il rintocco della mezzanotte.
«Ecco! Se qualche magia deve succedere, questo dovrebbe essere il momento!» disse Massimo vicino all'orecchio di Francesca, sfiorandole il lobo con le labbra.
Lei si voltò, rivolgendogli un sorriso capace, da solo, di sciogliere l'intero ghiaccio dell'artico in un istante.
Lo guardò negli occhi. Fece per dire qualcosa. Poi si irrigidì di colpo, spostando le iridi quasi trasparenti verso un punto alle sue spalle.
Spalancò la bocca e lo scansò velocemente di lato, dirigendosi come in trance verso la parete opposta.
Massimo la raggiunse.
«Cosa succede, Franc...»
«Shhh!» sussurrò lei, posandosi un dito sulle labbra. «Guarda!» gli indicò un punto sulla parete.
Poi si mise improvvisamente a cantare davanti al suo sguardo attonito.
«Segui la luna.
Cerca la luna.
Bambina bella, ti porta fortuna.
Trova quel raggio.
Segui quel raggio.
Bambina bella, trova il coraggio.
Guarda la pietra.
Hai trovato la pietra.
Bambina bella, magari arretra.
Spingi più forte.
Ancora più forte.
Bambina bella, apre tutte le porte.»
Di colpo il silenzio avvolse nuovamente la torre. Aveva canticchiato quella che sembrava una filastrocca, ed ora se ne stava immobile, con la bocca aperta, a guardare una parete di mattoni appena rischiarata da un raggio di luna.
Per un attimo Massimo pensò di essere in uno di quegli strani sogni, in cui succedono cose assurde nelle quali ci si trova dentro a forza.
Poi un lampo gli attraversò la mente.
«Tua nonna ti cantava questa filastrocca, Francesca?»
Lei annuì piano, senza dire una parola.
Poi si avvicinò al muro della torre, puntando dritta verso la pietra in alto, sulla quale il raggio di luna si posava, illuminandola perfettamente e facendola apparire di un bianco accecante.
«Mi cantava questa canzone tutte le sere, prima di andare a dormire. Mi diceva sempre "andrebbe cantata a mezzanotte, ma per questa volta faremo un'eccezione." Poi la volta dopo me la cantava di nuovo, ripetendo la stessa frase. Alla fine l'eccezione era la regola, perché io andavo a letto alle 10 al massimo, ma per me era diventato qualcosa di proibito che io e lei ci concedevano ogni sera. Tu dici che devo provare a spingere?»
«Dico che tua nonna ti aveva già nascosto un indizio in un gioco. Dico che non abbiamo nulla da perdere, Francesca! Al massimo la pietra resterà dov'è e quella resterà solo la tua canzone della buonanotte.»
Lei sembrò convincersi, fece un lungo respiro, poi allungò il braccio verso il punto colpito dal raggio di luna.
Massimo la vide spingere con forza.
Per un attimo tutto rimase in silenzio. Francesca spinse ancora.
Di colpo la pietra si mosse, arretrando di circa una spanna.
Restarono immobili, in attesa che qualcosa accadesse. Ma non accadde nulla.
«E ora?» chiese lei fremente.
Massimo fece ancora un passo, raggiunse il muro e guardò all'interno del dislivello che si era creato tra la pietra e gli altri mattoni.
Magari qualcosa era nascosto all'interno del muro, come era accaduto a casa di Francesca.
Ci passò le dita sopra, cercando di aiutarsi con il tatto, per capire se qualcosa fosse stato celato lì sotto.
Improvvisamente gli si gelò il sangue.
Qualcosa c'era!
Sembrava una piastra di metallo con un disegno impresso ad alto rilievo. Sembrava una stella, o qualcosa del genere.
Si pietrificò all'istante. Doveva verificare in fretta la sua ipotesi.
«Francesca, qui c'è qualcosa. Reggimi la torcia in alto, così che io possa vedere meglio!» disse alzandosi sulle punte e infilando il naso nel piccolo anfratto.
«Maledizione è lei!»
«Cosa è lei? Lei chi? Massimo, dimmi qualcosa!!»
Lui si voltò a guardarla, sentiva un sorriso quasi ebete solcargli le labbra.
«La serratura della chiave che mi ha lasciato mio nonno!»

La donna a cui nessuno riuscì a dipingere gli occhiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora