Capitolo 5 - l'uomo sulla facciata della chiesa

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Noli
10 agosto 1995
Ore 8,00

Era rientrata in paese come una furia.
Aveva rovistato frettolosamente nello zaino, lottando con oggetti inutili e disparati, fino a trovare le chiavi nascoste nell'anfratto più nascosto e più pieno di briciole che una borsa da signora potesse vantare, le aveva estratte e si era chiusa in quella che persino uno scrittore di storie medioevali avrebbe faticato a definire casa.
Aveva appoggiato la schiena sulla porta, sigillata con quattro mandate, e aveva finalmente tirato un sospiro di sollievo.
Quando le sue gambe avevano smesso di tremare si era recata verso il tavolo della cucina, si era abbandonata su una sedia traballante e aveva cercato nello stesso zaino traditore una bottiglietta d'acqua che si rese immediatamente conto di aver dimenticato a monte Ursino.
Imprecò mentalmente.
Da quei tubi marci, era pronta a scommettere, non sarebbe potuto uscire nemmeno un goccio di acqua potabile.
Si alzò, girò come una trottola per la stanza per alcuni minuti.
Avrebbe pagato qualsiasi cifra per un litro di caffè nerissimo e un bicchiere di acqua gelata.
Si diede della cretina, ancora una volta, come da due giorni a quella parte.
Ma di cosa diavolo aveva paura?
Si trovava ad agosto, in un paese turistico pieno di gente.
E quell'uomo, quello che aveva trovato al castello, era sicuramente un povero cristo che quella mattina aveva avuto la stessa gloriosa idea di andarsi a godere l'alba dall'alto della collina.
Tirò un altro respiro profondo, poi si avvicinò alla finestra impolverata.
Il mondo fuori continuava a girare come sempre: bambini che urlavano, mamme sull'orlo di una crisi di nervi, padri sommersi da fenicotteri gonfiabili, borse termiche e cappelli che si ostinavano a portare per i figli, senza mai riuscire a tenerglieli incollati sulla testa.
Una mattina d'estate come tante. Non c'era nulla di cui avere paura.
Respirò a fondo ancora una volta, poi si diresse verso la brandina che voleva assomigliare ad un letto, aprì la sua valigia scarna, ne estrasse un paio di jeans e una maglietta pulita e lì sostituì a quello che le rimaneva addosso dei vestiti.
Pochi minuti dopo uscì di casa, continuando a ripetersi in testa, come un mantra, che quelle che aveva provato erano solo stupide sensazioni dettate dal suo lutto recente.
Si avviò per i vicoli, alla ricerca di un bar in cui comprare due bottigliette di acqua e in cui farsi servire, uno dietro l'altro, almeno cinque caffè.
Svoltò il primo angolo, passando da via Sartorio a via Cristoforo Colombo. Una torre altissima faceva da guardia all'incrocio delle vie.
Francesca si fermò a guardare la targa di ottone elegantemente appoggiata ai mattoni medioevali.

Torre dei quattro Canti, detta anche del Canto
Costruita probabilmente intorno al 1300, sui resti di un'antica torre dei primi decenni dell'anno mille, di proprietà della famiglia Ceretti.
Rappresenta, con i suoi trentotto metri di altezza, la torre più alta conservata a Noli.
Il suo nome è dovuto alla posizione. È infatti situata sul cantone di un quadrivio (di qui "dei quattro Canti")
La sua particolare conformazione a base trapezoidale, fa sì che da alcuni punti sia possibile vederne tre lati contemporaneamente, cosa impossibile per le torri a pianta quadrata.

Francesca lesse tutto d'un fiato, mentre si rendeva conto che la sua scimmiottatura di casa appena ereditata, era confinante con uno dei muri della torre.
Probabilmente era per quello che puzzava tanto di muffa. Se una delle sue pareti risaliva ai primi decenni dell'anno mille non c'era da stupirsi che la salubrità dell'ambiente fosse costantemente presa d'assalto dallo scorrere del tempo.
Lasciò scivolare le dita sulle pietre. Non sapeva neppure il perché, eppure era come se quella città in qualche modo la chiamasse. Come se le sussurrasse di non andarsene. E dio solo sapeva quante volte, in quei due giorni, aveva pensato di prendere la macchina e di tornarsene a Milano, ad affogare in mezzo al cemento.
Ma poi qualcosa riusciva sempre a trattenerla. Dapprima erano stati i vicoli, poi la storia, poi il castello di monte Ursino, e infine quella torre che sembrava avere tante di quelle storie da raccontare da farle venire il mal di testa.
Rovistò ancora nella borsa, cercando la macchina usa e getta, per fotografare la torre dal basso, in un' inquadratura che in quel momento le parve perfetta.
Di colpo il sangue le si gelò nelle vene.
Un uomo anziano la spiava da poco distante.
Aveva un grande cappello sulla testa, uno di quelli da pescatore. Se ne stava appoggiato al muro di pietre a secco della chiesa di fronte, e la guardava fissa.
Francesca interruppe immediatamente la ricerca della macchina fotografica.
Sentiva il cuore risalirle la gola e le mani tremare leggermente.
Provò a razionalizzare ancora una volta, a respirare, ma non ci riuscì.
Si allontanò d'istinto dalla torre, immergendosi nei carruggi e camminando a passo spedito senza meta.
Per un attimo pensò di entrare in un negozio, convinta che la cosa l'avrebbe fatta sentire al sicuro, poi ci ripensò.
Camminava, sfilando davanti a gelaterie  chiuse, tabaccai, negozi di scarpe.
Camminava e basta, cercando di allontanarsi da via Cristoforo Colombo, dalla sua torre e dalla sua chiesa.
Quando raggiunse via Giuseppe Verdi si guardò indietro.
Nessuna traccia dell'uomo con il cappello.
Si lascio scappare un sorriso.
Una cretina, era solo una cretina.
E quel vecchio, probabilmente, era solo un uomo che aveva visto una bella ragazza con i jeans attillati.
Fu quando il suo cuore riprese a battere più lentamente che lo vide sbucare dall'angolo di un carruggio.
E per poco non si strozzò con la saliva.
Maledizione!
No, quell'uomo non era solo un vecchio appoggiato alla chiesa. Quell'uomo seguiva lei!
La tranquillità che si era autoimposta dandosi della stupida, svanì con la rapidità di un battito di ciglia.
Riprese la sua corsa verso l'ignoto, mentre con la mente cercava di frugare nel suo zaino alla ricerca delle chiavi della macchina. Non c'erano. L'immagine nitida del portachiavi a forma di tartaruga, abbandonato sul tavolo della sua catapecchia, le apparve nitido come una fotografia.
Non poteva fare altro che tentare di seminarlo tra i vicoli.
Superò la piazza del mercato dove il primo giorno aveva comprato la verdura a peso d'oro, inforcò via del Monastero, la percorse fino a piazza Aldo Moro.
Leggeva i nomi delle vie, contrastando le lacrime e la paura che continuavano ad annebbiarle lo sguardo, nel vano tentativo di costruirsi una mappa mentale per poter seminare il suo inseguitore, tornare a casa, prendere le chiavi della macchina e sparire per sempre da Noli.
Ma più avanzava, con il fiato che si faceva più corto ad ogni passo, più si rendeva conto di aver perso l'orientamento in mezzo ai vicoli stretti di una città che contava più di mille anni di storia.
Svoltò l'ennesimo angolo, finalmente le costruzioni si diradavano e poteva vedere le torri svettare verso il cielo.
Il cuore le batteva nelle tempie.
Si ricordò immediatamente della targa affissa sulla torre del Canto "l'unica torre di cui è possibile vedere contemporaneamente tre lati".
Adesso sapeva dove era casa sua. Adesso sapeva come tornarci.
Lasciò vagare lo sguardo attentamente nel carruggio, per un attimo una fila di vacanzieri dagli improbabili abbigliamenti colorati conquistò il suo campo visivo, e poi eccolo, il vecchio era sbucato da un angolo in lontananza. Lui, il suo cappello enorme e tutta la paura che si portava dietro.
Si guardò intorno ancora per un attimo.
Da un lato la città con le sue torri e la sua mappa facilmente ripercorribile, dall'altro monte Ursino che sovrastava la collina, che sovrastava il borgo, che sovrastava il mare.
Doveva essere in grado di tornare nel punto esatto in cui si trovava in quel momento. Di lì sarebbe potuta tornare a casa. Avrebbe trovato una caserma dei carabinieri, una stazione di polizia, si sarebbe fatta dare della pazza, si sarebbe fatta riaccompagnare nella catapecchia, avrebbe recuperato le chiavi della macchina e sarebbe sparita per sempre dalla Liguria.
Questo era il piano che le si delineava nella testa mentre osservava l'uomo dal cappello intrufolarsi nel vicolo, mentre vedeva i suoi occhi cercarla da lontano, mentre inforcava una strada che sembrava più larga delle altre, più soleggiata delle altre, apparentemente più sicura delle altre.
Era paralizzata dalla paura.
Le sue scarpe da ginnastica scivolavano veloci sull'acciottolato nero e bianco del pavimento vecchio di secoli. Il fiato corto, il cuore che batteva all'impazzata.
Svoltò un nuovo angolo, e quello stesso il cuore le rimbalzò nella gola.
L'uomo di monte Ursino le stava in piedi davanti, con l'insegna di un bar squallido a fargli da sfondo.
Era circondata!
Il terrore le impediva quasi di respirare, mentre osservava l'individuo incontrato all'alba spalancare la bocca e fare un passo nella sua direzione.
Sentì le lacrime scorrerle sul viso.
Si girò di scatto. Non sapeva di cosa avere più paura, se del vecchio con il cappello che continuava a seguirla come un mastino o se dell'uomo che l'aveva riconosciuta e che adesso cercava di raggiungerla.
Era un incubo.
Un incubo alla luce del primo sole di una mattina di inizio agosto.
Corse via.
Non sapeva nemmeno dove stesse correndo.
Improvvisamente sentì dei passi pesanti rimbombarle dietro alla schiena.
Qualcuno correva, correva verso di lei.
Accelerò il passo, tutto quello che le permettevano le gambe.
E fu in quell'istante che si senti afferrare per la spalla. Le sembrò di svenire.
Scoppiò in un pianto disperato. Era in trappola.
L'uomo l'aveva raggiunta, l'aveva presa.
E lei si sentiva improvvisamente impotente.
Aveva sempre pensato di essere una persona forte, in grado di difendersi. E invece si era trovata inerme tra le mani di qualcuno che la seguiva da giorni.
E l'unica cosa che si era ritrovata in grado di fare era stata quella di piangere disperatamente.
In quel momento, in mezzo alla paura, riuscì addirittura ad odiarsi per quello.
L'uomo la voltò con un gesto delicato che le parve fuori posto.
Quando se lo ritrovo in piedi davanti, vide il suo sguardo turbato scivolarle sulle lacrime.
«Signorina, le chiedo scusa... io non...»
«Cosa volete da me?» lo interruppe bruscamente, urlandogli in faccia con la voce affogata dai singhiozzi.
L'uomo ritrasse la mano.
Il viso gli si contrasse in una smorfia carica di vergogna.
«Non volevo spaventarla, signorina. Mi chiamo Massimo Bottari. Sono docente di storia medioevale all'università di Genova.»
Francesca ricominciò a respirare.
Massimo Bottari, docente di storia medioevale all'università di Genova, sembrava non avere alcuna intenzione di farle del male.
«Io... mi scusi. La accompagno a prendere un bicchiere d'acqua? Lì c'è un bar» disse indicando lo squallido posto da cui era appena uscito che riportava la scritta bar sport.  «So che all'apparenza fa schifo, e anche la birra è pessima, ma è di un mio amico. Potrà sedersi un minuto.»
Francesca guardò l'insegna tutta scrostata, poi tornò a guardare gli occhi di Massimo Bottari, che sembravano davvero intenzionati a farla sentire al sicuro.
«Qualcuno mi sta seguendo, professor Bottari.» Balbettò solamente. Non sapeva perché, ma si fidava di lui.
No, non voleva farle del male, ne era sicura.
Gli occhi dell'uomo si ridussero per un momento in due fessure.
«Chi la sta seguendo, signorina?" Le chiese con un sorriso che sembrava costruito con tutta l'attenzione che era riuscito a trovare.
Francesca sospirò.
«So che le sembrerà una storia assurda professore, ma è da quando sono arrivata a Noli che ho la sensazione che qualcuno mi spii da lontano... io... io voglio andare via da qui!» disse tutto d'un fiato.
«Signorina, io non ho alcuna intenzione di farle del male. Se vuole, poco distante da qui, c'è una caserma dei carabinieri, le posso indicare la strada, o posso accompagnarla.» fece una pausa sbirciando tra i vicoli. «Laggiù è pieno di persone... se si sente più sicura passiamo di lì»
Francesca sentì che lentamente l'aria tornava a farsi strada tra i polmoni.
No, quell'uomo non voleva farle del male.
Era preoccupato, agitato, e attento a non farla spaventare.
Eppure la guardava in modo strano. Come se la stesse studiando. Se stesse cercando di capire qualcosa.
«Lei era a Monte Ursino, questa mattina, professore?»
«Sì, e c'era anche lei...»
Francesca annuì con la testa.
«Signorina, io devo raccontarle una storia, ma non voglio spaventarla in alcun modo. Quindi la prego, andiamo davanti alla caserma dei carabinieri, così si sentirà al sicuro.»
«Quale storia?" Avvertì la sua stessa voce nuovamente incrinata.
«Mi segua, la prego. In due minuti saremo in piazza del Milite Ignoto, dove c'è la caserma. Lì, se vorrà, le spiegherò perché questa mattina ero a monte Ursino. E... non ne sono sicuro, ma forse le spiegherò perché c'era anche lei...»

La donna a cui nessuno riuscì a dipingere gli occhiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora