𝖯𝗋𝗈𝗅𝗈𝗀𝗈

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«Vivere nel sottosuolo era una tortura», dicevano alcuni. Nessuno di noi aveva mai visto la luce del sole e provata sulla propria pelle, tantomeno incontravamo persone diverse da quelle che vi abitavano o, nutrirsi di carne invece del solito pane marcio che veniva servito ai cosiddetti poveracci. I bambini senza genitori, venivano trattati dagli stessi cittadini come animali da macello, fino a quando non morivi in un buco qualunque della città e le persone ti passavano sopra come se fossi un inutile sacco di merda.

Mia madre morì di malattia, in una stanza del vecchio edificio chiamato Moline Rosse: un abitacolo vissuto da venti donne, una più attraente dell'altra, dando piacere agli uomini che pagavano la tariffa per ricevere da loro qualunque servizio richiesto. A quei tempi, non capivo perché mia madre lasciasse entrare chiunque nella stanza, nella nostra stanza, dove entrambe passavamo le nostre giornate e condividevamo le nostre vite.

Non era una brutta persona, come molti dicevano. I vociferi in città, diventavano sempre più insistenti: «Com'è possibile che permette di far assistere sua figlia durante un intenso sesso con uomini di ogni tipo, razza e dimensioni? Che sciaguatta da quattro soldi.» La maggior parte delle volte, facevo finta di non ascoltare e mettevo davanti le commissioni che mia madre mi affibbiava durante la giornata, visto che lei non poteva per il lavoro e soprattutto perché nell'ultimo periodo, riscontrò un forte mal di gola.

I giorni passavano, così come gli anni. Mia madre peggiorava sempre di più, ma nell'abitacolo, non fu l'unica a cadere malata. Una certa Kuchel Ackerman, iniziò a non riuscire più a muoversi dal letto. Neanche il vecchio fannullone che si occupava di giostrare le finanze di quella catapecchia, George Stylinston, si preoccupò di andare a controllarla. D'altronde, anche se ero una bambina, mi occupavo dello stato di salute di mia madre e con i soldi che riusciva a ricavarne con il suo "lavoro", compravamo una fetta di pane e il restante in medicine per alleviarle il dolore.

Ma un giorno, nella vecchia catapecchia, vi entrò un uomo molto alto, mingherlino e che indossava un vecchio cappello nero e un lungo cappotto del medesimo colore che cadeva fino alle ginocchia. Sembrava un cacciatore, o appartenente a qualche gruppo speciale che vedevo continuamente spesso tra i vicoli della città, mentre svolgevo le mie mansioni.

Lo spiai attraverso lo spioncino della porta socchiusa della camera, facendo piano, in modo che non se ne accorgesse della mia presenza. Le stanze del piano superiore, comprendevano da quattro camerate: due a destra e due a sinistra. Noi ci trovavamo accanto a quella della signorina Ackerman, che da diverse settimane, non uscì più dalla sua stanza. Non la vidi più camminare per i corridoi con i suoi abiti succinti che le calzavano alla perfezione addosso e un po' mi dispiacque. Mi piaceva osservarla ed era una gran bella donna, come mia madre e il restante che vi vivevano.

Tornando al punto di partenza, l'uomo si fermò proprio davanti alla camerata della signorina Ackerman, esitando se bussare o meno. Si aggiustava continuamente il cappello, oscurandosi il viso con l'ombra di quest'ultimo. Il suo viso sprizzava di tristezza, e i miei occhi erano incantati nel fissargli il viso pulito e senza alcun strato di barba, come avevo visto settimane prima da uomini meno curati e puzzolenti. Quell'uomo invece, era molto più attraente.

Chiusi la porta lentamente, lasciando la stanza nella penombra, se non fosse stato per la luce lunare riflettere dal riflesso della finestra. I miei occhi dall'intenso colore nocciola chiaro, si posarono sulla figura ormai divenuta magra di mia madre, stesa e coperta fino al collo dalle lenzuola bianche del letto. Erano giorni che dormiva, così la lasciavo riposare senza recarle alcun fastidio. Però, come ogni volta, l'avvisavo che sarei andata fuori per sbrigare delle faccende, in modo tale che al suo risveglio non si sarebbe preoccupata.

Sgattaiolai sul letto e a quattro zampe mi avvicinai alla figura di mia madre, arrivando ad incontrare il suo viso con il mio. «Mamma, io esco un secondo, d'accordo? Torno presto, non preoccuparti per me e continua a dormire.» Le sussurrai, sorridendole dolcemente, mentre lei prendendo in considerazione le mie parole, continuò a dormire profondamente. Mi avvicinai e le diedi un veloce bacio sulla guancia, rimettendo i piedi fuori dal letto e scendere con un saltello.

The Plot. [Attack on Titan] Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora