𝖴𝗇 𝖺𝗍𝗍𝗂𝗆𝗈 𝖼𝗁𝖾 𝗏𝖺𝗅𝗀𝖺 𝗎𝗇𝖺 𝗏𝗂𝗍𝖺.

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"Passai accanto a duecento persone
e non riuscii a vedere un solo essere umano."

Sull'isola di Paradis

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Sull'isola di Paradis.
› Cimitero,
Kesey Schwarz.

Fu con le mani vuote che mi ritrovai nell'orrido cimitero, dove un sole soleggiato invernale gettava ombre contorte, e gli alberi nudi si piegavano tristi sull'erba inaridita e gelata, sulle lapidi corrose dal tempo. Nei cimiteri, per quanti fiori ci fossero, non era mai primavera. I cancelli attorno li consideravo stupidi, perché quelli all'interno non potevano uscirne e quelli al di fuori non desideravano entrarvi. Non avrei mai sopportato di essere sepolta assieme a della gente a cui non fossi stata presentata. I cimiteri erano pieni di sogni irrealizzati, innumerevoli echi di "avrei potuto avere" e "avrei dovuto essere". I cimiteri erano pieni di gente di cui il mondo non poteva fare a meno e pare che per molti il desiderio maggiore era quello di leggere con gli occhi vuoti l'epitaffio, sul quale veniva iscritto le virtù acquisite con la morte e dell'effetto retroattivo.

Ero seduta sull'aiuola verde con la schiena appoggiata alla lapide di Ston e gli occhi puntati nel vuoto. Strinsi le braccia al petto e posai il mento sul braccio, cercando di trovarvi una posizione comoda su cui meditare. La lapide di Ston era semplicemente una lapide: la data di nascita, quella di morte, il luogo natale e il grado dell'esercito con zero stelle: agli occhi di Paradis, non era più neanche un soldato. Nulla di così eclatante da far fermare un passante e dispiacersi per quel che era stato Ston in vita. Nulla da renderlo diverso agli occhi degli altri, morti e sepolti. Accanto ad esso, spiccavano anche quelle dei miei compagni: l'intera squadra della Seconda Armata Ricognitiva a due metri sottoterra.

Spostai gli occhi nel vuoto verso Mikasa: ridotta anch'essa nella mia stessa posizione, accanto alla lapide di Sasha. Non c'era stato nulla da fare per quella ragazza e nonostante avessi voluto sedermi accanto a lei, portarle una cesta di patate, la mia testa diceva che non era il momento giusto. Loro conoscevano Sasha meglio di me. Chi mai voleva una sconosciuta in mezzo a loro?

Una gocciolina cadde sulla punta del mio naso e sussultai presa alla sprovvista, indirizzando gli occhi verso il cielo e adocchiare i nuvoloni grigi mischiarsi nell'azzurro immenso. Inghiottì a vuoto e affondai il viso nelle braccia, chiudendo gli occhi e lasciare che la pioggia mi inzuppasse dalla testa ai piedi, fregandomene di prendere un malanno. Alle volte, diventavi menefreghista, altre invece, paranoico da chiederti: "È la cosa giusta?" Ma in realtà, qual era la risposta giusta a questa domanda? Bisognava trovare il giusto mezzo. Da qualche parte tra fottersene e creparci. Tra chiudersi a doppio giro di chiave e lasciare entrare poi il mondo intero. Non diventare duri ma neppure lasciarsi distruggere.
Era molto difficile. Perché alla fine, non te ne fregava niente ma intanto ci precipitavi.

Improvvisamente, le goccioline di pioggia cessarono e alzai il viso dalle braccia, notando un ombrello nero coprire la mia figura rannicchiata. Guardai alla mia destra e vidi Edward, all'impiedi, sorridermi tristemente. «Se non ti ripari, prenderai un malanno.» Disse premuroso, ammorbidendo lo sguardo.

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