30- NON C'È UN PERCHÉ

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Quel bacio, completamente inaspettato, mi lascia con un paio di occhi spalancati e un cuore a mille. Esso batte contro il mio petto, come se avesse intenzione di uscire dal mio corpo per poter fuggire lontano. Quella sensazione (che ancora non ha nome) si fa largo dentro di me, rilasciando calore, che si insinua nelle mie guance, e un senso di vuoto attorno a noi; è come se il carcere, i detenuti, le guardie, il mondo siano completamente evaporati come una pozzanghera d'acqua in una giornata d'estate. Esistiamo solo noi due, nulla di più, nulla di meno.

Ackerman si separa da me qualche secondo, per potermi sovrastare con il suo corpo che sta emanando un forte tepore, tant'è che non sento più freddo.

Torna a baciarmi subito dopo, mantenendo comunque una certa castità e dolcezza nei suoi modi di fare. Quello non è un bacio da sesso, ormai li conosco fin troppo bene, questo è un bacio da...

Il mio respiro rimane sospeso, come se le narici si fossero serrate, non contribuenti a far entrare ulteriore ossigeno. Mi balena in testa l'idea di staccarmi da lui e riprendere fiato, ma poi so di per certo che avrei rovinato quel nostro momento. Per la prima volta, esiste davvero un momento tra noi. E non parlo di violenza fisica sul mio corpo o di stupro, di litigio o di repulsione. C'è qualcosa di più, di nuovo, ancora inesplorato.

Le mie orecchie pulsano e si fanno sorde. Sembra che di voler proprio abbiano smesso di ascoltare. Non so se sta piovendo ancora o se sta già sorgendo il sole. Il tempo si è fermato o sta accelerando, trasformando i minuti in secondi? Tutto quello che sento è vero o solo frutto di una sensazione surreale che crea man mano immagini altrettanto irreali, ma tremendamente vicine alla realtà stessa?

Levi si stacca, probabilmente privo anch'esso di fiato. Lo riprende svelto, ma non si avvicina più. Sfiora il mio zigomo, riportandomi in quella branda dal colore cupo, circondata da pareti grigi e da un lato di sbarre. Sono di nuovo in carcere; sono di nuovo all'inferno, ma davanti a me è apparso un angelo dagli occhi iniettati di sangue non cremisi, bensì blu come il mare durante la tempesta.

«Non fermarti»

Chi ha parlato? Ho sentito la voce di qualcuno, qualcuno che sembra in procinto di piangere. È una voce tremolante, ma decisa, che ha sussurrato quelle parole con autorità, come se fosse quella stessa persona a tenere le redini del gioco. Ma che gioco, mi chiedo?

Poi constato che quel miscuglio di suoni provocati dalle corde vocali appartiene a me, il detenuto malato che pende dalle labbra dell'unica medicina che, in quel momento, rappresenta una via di fuga. Ed è Levi colui che me la sta porgendo.

Di nuovo ci aggrovigliamo tra noi, afferrandoci il busto, il collo, accarezzandoci i fianchi, la pelle nuda sotto la divisa, i capelli arruffati e ormai pieni di nodi che non permettono alle nostre mani di intraprendere un viaggio fluido, privo di ostacoli.

Ma in tutto ciò, nessuno dei due voleva andare oltre a quel bacio. Nessuno dei due avrebbe infangato quel nostro momento, oltraggiandolo con atti perversi che diventavano una conseguenza di quel gesto che, di perverso, non aveva nulla.

Non passò molto da quando cominciai a cedere alla stanchezza. Varcai la soglia che mi avrebbe portato dritto tra le braccia di Morfeo, ma senza lasciare alle mie spalle il ricordo di ciò che era appena accaduto. Sognai quel bacio tutta la notte. Lo stesso bacio, ma in luoghi diversi e occasioni altrettanto differenti.

Levi mi tenne stretto a sè, fin quando non smisi più di pensare e il mio respiro si fece rilassato. Aveva appoggiato la testa poco più sopra a dove stava la mia, così che potessi aderire la mia fronte dell'incavo del suo collo.

Quella mattina, la sveglia non raggiunse la nostra cella. Entrambi abbiamo dormito fin quando non arrivò un secondino a buttarci giù dal letto, ma non in senso figurativo. Si limitò ad entrare in quella stanza stretta e sbattere il manganello contro lo scheletro in metallo del letto.

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