25- AIUTO MAFIOSO

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Levi è stato particolarmente gentile e rude allo stesso tempo, ieri notte. Stamattina, quando mi sono svegliato  stavo bene e non sentivo dolore al fondoschiena. Magari solo un po', ma non come tutte le altre volte. Devo dire che è stato molto piacevole, nonostante io sia servito come oggetto di sfogo per la sua rabbia.

Prima di andare in mensa, sono anche riuscito ad espellere la droga tramite le feci, facendo sparire ogni singola forma di ansia che avevo provato fin'ora. Non sono morto, che sollievo. Anche Ackerman sembrava essere soddisfatto del mio operato.

Mi giro verso il protagonista dei miei pensieri, il quale non ha smesso di tener d'occhio il nuovo detenuto. Sembra essere arrivato poco fa, eppure fin da subito è stato circondato da uomini pronti a servirlo. Magari è già stato qui in passato, anche se mi sembra troppo giovane.

L'uomo in questione si chiama Derek Dickinson, alto sul metro e ottanta, non troppo muscoloso, capelli corti, arruffati e neri come la pece, occhi azzurri come quelli di Armin e pelle quasi cadaverica. È molto attraente e se ne sta seduto in mensa con una postura elegante. La sbobba che hanno gli altri non è la stessa che è stata data a lui: sul suo vassoio sono presenti verdure fresche, pane morbido e una bistecca di carne dall'aspetto invitante. Sarà anche lui un privilegiato come Ackerman? Eppure a noi non hanno mai dato del cibo tanto delizioso.

«Andiamo» ordina il corvino, spingendomi in direzione della nostra stanza privata. Jean ed Armin sono presto dietro di noi. «Chi sono tutte queste facce nuove?» ringhia, sedendosi su una delle sedie. Porta due dita alla fronte per massaggiarsi le tempie, mentre noi altri prendiamo posto al tavolo. «Merda, mi fa incazzare»

«Gira voce che Dickinson sia un mafioso» sussurra Jean, sporgendosi dalla sedia per farsi sentire. «È stato tradito e per questo si trova qui» il biondo accanto a lui osserva la porta, come preoccupato, ed io gli metto una mano sulla coscia, per tentare di calmarlo. Nonostante l'ultima volta mi abbia difeso da Ackerman, non sembra volermi rivolgere ancora la parola. Anzi, quando percepisce il mio tocco, mi guarda infastidito e mi toglie la mano da lì, allontanandosi di poco.

Come posso fare a farmi perdonare da l'unica persona sana di mente qui dentro?

Dopo il pranzo passato a discutere su come evitare di farsi intralciare dal nuovo detenuto, io ed Ackerman andiamo in direzione della nostra cella, ma prima di entrare, Raimondi fa capolino davanti a noi. «Jaeger, hai visite» il suo tono è particolarmente gentile. Era da tempo che non veniva a trovarmi a qualcuno.

Seguo la guardia fino alla saletta delle visite, cercando di vedere oltre le sue larghe spalle. La stanza è quasi del tutto vuota - ci sono giusto due famiglie - e solo dopo un'attenta visione del posto, intravedo mia madre e mio padre seduti in fondo. Vederli mi fa venire le lacrime agli occhi, ma come reagiranno loro quando vedranno me, pelle e ossa?

La risposta mi arriva presto quando noto lo sguardo della donna agganciarsi al mio. Dopo avermi squadrato, scoppia in lacrime, attirando non solo l'attenzione di suo marito, ma anche di tutti i presenti. Ho addosso gli occhi di tutti e la cosa mi mette a disagio.

Raimondi appoggia il palmo sulla mia schiena e mi accompagna al tavolo. Nel frattempo, i miei genitori sono in piedi e presto avvinghiati a me, non curanti del fatto che stessero stritolando anche la mano del secondino al mio fianco, il quale emette solo un grugnito.

«Guarda c-come ti hanno ri-ridotto» piange mia madre, volendo intensificare l'abbraccio, ma senza volerlo fa scrocchiare le ossa della mia spina dorsale. Mi manca il fiato per un secondo e Raimondi è costretto a liberarmi dalla presa. Ora entrambi i miei sono in lacrime e hanno quasi il timore di farmi del male, perciò evitano di toccarmi ulteriormente durante tutta la loro visita, dove abbiamo parlato di come trovare i soldi della cauzione, dato che ancora non hanno raggiunto la cifra stabilita. Anche quando è il momento di salutarci, si limitano a darmi qualche bacio sulle guance e sulla fronte, pur di non provocarmi dolore.

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