L'ansia prese possesso del mio corpo, impedendomi di agire con immediatezza. Rimasi imbambolata a fissare la porta, inerme, per una manciata di secondi.
Ero stata io a lasciarla in quel modo o qualcuno l'aveva aperta?
Mi si drizzarono i capelli solo a pensarci, e non persi un secondo di più. Balzai giù dal letto senza grazia né premura nei confronti di Cameron, e probabilmente gli schiacciai pure un arto mentre oltrepassavo la sua figura; ma non badai molto alle lamentele che gli sentii proferire, perché in fondo un po' di dolore se lo meritava.
Era a causa sua se mi trovavo in quella situazione. Se mi avesse ascoltata, se fosse tornato in camera sua, io non avrei rischiato di scivolare di faccia sul pavimento per la furia di raggiungere la porta, perché non ce ne sarebbe stato il bisogno. Arrivai a chiuderla senza rompermi l'osso del collo, poi mi ci appoggiai contro, ansante.
Tentai di richiamare alla memoria la sequenza dei gesti compiuti la sera precedente, quando ero tornata dal bagno, ma vigeva ancora il dubbio, perché non ricordavo né di averla lasciata aperta né di aver fatto il contrario.
Improvvisamente non ci fu più alcun rumore, oltre quello della pioggia. Nessun trillo, nessuna canzone, e mi venne spontaneo sollevare la testa.
Trovai Cameron seduto a gambe incrociate, con la schiena ricurva e i gomiti che gli premevano sulle cosce. Si passò una mano sul viso, poi fece scorrere la stessa tra i capelli, scompigliandoseli ancora di più, e mi guardò. Aveva gli occhi lucidi, assonnati ma terribilmente belli. Lui era terribilmente bello.
«Charlie», mi chiamò a voce bassa, vibrante. «Io non-»
«Ti ricordi se ieri sera ho chiuso la porta?» domandai in un sussurro, avvicinandomi alla finestra per controllare se le macchine dei nostri genitori fossero ancora parcheggiate nel vialetto. «Siamo soli» mormorai, vedendo solo la macchina di Cameron.
Mi girai nuovamente verso di lui, in attesa di una risposta. Guardava l'ingresso della mia camera corrugando le sopracciglia, a labbra schiuse. «Non ne sono sicuro», disse infine. «Forse sì.» Fece per parlare di nuovo ma non ne ebbe il tempo, perché iniziai a farlo io, a raffica.
«Perfetto. Proprio quello che speravo di sentire!» Mi sfuggì una risata isterica. «Perché cavolo hai dormito qui? E lo sai, lo sai che nella stanza accanto ci stanno i nostri genitori, che mio padre sarebbe tornato... e se ti ha visto-»
«Si può sapere cosa stai dicendo? Non ci sto capendo un cazzo, Charlie.» Mi guardò come se fossi una pazza blaterante.
Sospirai. «Quando mi sono svegliata la porta era socchiusa. Ho il presentimento che l'abbia aperta mio padre. E tu eri qui, nel mio letto!»
Realizzai che la colpa non era esclusivamente di Cameron. In parte, se avevo il timore che fosse stato proprio mio padre a dischiudere quella fessura, poiché lo ritenevo l'unico adulto che si permettesse di abbassare la maniglia quando non sentiva una risposta, c'entravo anch'io.
Lo avevo assecondato, e non importava quante volte gli avessi chiesto di tornarsene in camera sua, perché non l'avevo mai fatto con convinzione, né mi ero assicurata che se ne andasse prima di abbandonarmi al sonno.
Cameron rise. «È questo il problema?»
Io ero terrificata dall'esistenza di quella probabilità e lui rideva. Me la presi ancora di più, e irritata incrociai le braccia al petto. «Ti sembra divertente?»
«È solo che mi sembri più preoccupata adesso rispetto all'altra sera. E questa volta ero totalmente vestito», iniziò a dire, indicandosi la maglietta. «Sopra le coperte», continuò. «Non mi pare così tragica.»
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Under the same roof
Novela JuvenilCharlotte Reed, trasparente come l'acqua cristallina e drammatica come un'attrice di teatro, non è assolutamente pronta ai cambiamenti che le si paleseranno nel mezzo dei suoi diciassette anni. In particolar modo, non è preparata alla proposta di su...