Piani in fumo.

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Avevo passato metà della mia adolescenza a spingere i giorni, nell'attesa che arrivasse il fine settimana. Non era solo per la pausa dalle lezioni o per le uscite insieme a Jessica; il quadro era molto più ampio e raffigurava mio padre. Mi piaceva trascorrere del tempo con lui. Mi piaceva sapere che la domenica mattina lo avrei trovato in cucina, con la sua tazza tra le dita e il giornale sotto al naso.

Solo quando Jane era entrata a far parte delle nostre vite, e avevo dovuto imparare a condividere il tempo di quell'uomo con lei, le mie abitudini erano cambiate. Perché se non avessi iniziato ad allentare la presa, impegnando i miei pomeriggi domenicali o incitandolo a mettere piede fuori senza di me, papà non avrebbe mai tagliato il cordone ombelicale.

Sarebbe fantastico poter dire che ero stata così matura da formulare con la mia testa quel pensiero, ma era solo grazie alla mamma di Jessica che avevo capito determinate cose, cose che John Reed non mi avrebbe mai detto apertamente.

In fin dei conti, però, la mia parte preferita di quella giornata non era mai mutata, ed era il buongiorno della domenica mattina, quell'immagine di mio padre seduto e rilassato che mi faceva sorridere come se avessi ancora sei anni e fossimo ancora l'uno il centro del mondo dell'altro, senza contorni né sfumature.

E mai, mai nella mia vita avrei pensato di sperare che ricevesse una chiamata che lo confinasse a lavoro, o che uscisse di casa con Jane. Mai prima di allora.

Perché Cameron era lì accanto a lui e il richiamo delle sue iridi mi stramazzava dentro. Non desideravo altro che ci lasciassero da soli. Volevo sentirmi libera di osservarlo, senza preoccuparmi che intercettassero il mio sguardo e si rendessero conto che c'era qualcosa di diverso nel modo in cui i miei occhi s'incastravano ai suoi.

Ma loro rimanevano lì.

«Avete fatto voto di silenzio?» chiesi, lasciando un bacio sulla guancia di mio padre.

Mi ripetei mentalmente di seguire il consiglio che avevo ricevuto da Jessica un attimo prima di scendere a fare colazione: dovevo comportarmi come la Charlotte di prima, altrimenti mi sarei fregata da sola.

«Farebbero bene a farlo» rispose Jane. «Naturalmente non mi riferisco a te, Tyler.»

Lo guardai. Era evidente che stesse ancora facendo i conti con i postumi della sbornia, sembrava rasentarne i limiti della sopportazione. I suoi capelli erano disastrosamente scompigliati, le labbra secche quasi non bevesse da giorni e non aveva ripreso nemmeno un briciolo di colorito. Era a pezzi, ma le sorrise come se fosse integro.

Papà mise la mano sulla spalla di Cameron, stringendola in un gesto di conforto mentre io mi avvicinavo alla macchinetta per il caffè. «Ti sono vicino», gli disse.

L'altro lo imitò, socchiuse le labbra e annuì, tirando fuori un'espressione di finta tristezza. «Anche io, John. Un giorno andrò via da questa casa, e tu dovrai vivere da solo con lei. Mi dispiace davvero tanto.»

Jane gli lanciò lo strofinaccio, questo oltrepassò lo spazio vuoto tra le loro braccia e arrivò sul pavimento. «Siete due cretini! E dato che vi divertite tanto, adesso rido io» indirizzò il viso verso suo figlio. «La camicia puoi lavartela da solo, con le tue belle manine.»

«Ancora con questa storia della camicia» s'intromise mio padre in difesa. «Secondo te cos'avrebbe dovuto fare? Dire alla ragazza in questione di struccarsi prima di avvicinarsi a lui?»

Mi raggelai sul posto. Proprio lì, a un passo dall'aprire l'anta della dispensa. Avrei potuto infilare il viso dentro, contemplare pacchi di brioche e barattoli di confetture, mettendo tra me e i presenti un separé fatto di legno, ma non lo feci. Rimasi a guardarli, approfittando del fatto che nessuno di loro, a eccezione di Jessica, si fosse preoccupato di spostare lo sguardo verso la sottoscritta.

Under the same roofDove le storie prendono vita. Scoprilo ora