L'altruismo della rinuncia

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«Ha davvero comprato tre cartoni di succo d'ace?» Cameron riemerse dalla dispensa e mi guardò. Il sorriso che andava da un orecchio all'altro, lo sguardo luminoso per la consapevolezza di aver rubato il cuore di qualcuno. Quello di John Reed.

«È il tuo preferito, quindi ha fatto scorta. Visto che, come dicevo prima, vivi praticamente qui.»

Mi ignorò bellamente e tirò fuori dal frigo il necessario per farcire i sandwich che lui stesso si era offerto di preparare. «Quindi, solo avocado e salmone?»

«E formaggio spalmabile.»

Cameron mise tutto sulla superficie dell'isola, proprio accanto alle mie cosce.

«È un modo velato per chiedermi di spostarmi?»

«Come lo hai capito?» Ebbe pure il coraggio di dire. Poi mi diede un colpetto sulla gamba, e io mi trascinai lateralmente, lasciandogli più margine mentre apriva uno dei cassetti e prendeva un coltello.

Forse neppure mio padre sapeva muoversi così bene all'interno di quella stanza. Cameron, invece, si aggirava come se quello spazio fosse stato sempre suo. E lo dimostrava il fatto che conoscesse il contenuto di qualsiasi anta della cucina.

Questo perché John Reed lo amava come se fosse una sua estensione. Il figlio maschio che aveva sempre desiderato. Quello con cui poteva andare allo stadio, organizzare partite di calcio e parlare di sport come se non ci fosse un domani. Ma non si riduceva tutto a questo.

Cameron gli ispirava fiducia. Era per lui che potevo andare alle feste e fare tardi. Bastava una sua parola e i no di mio padre si trasformavano immediatamente in sì.

Si fidava ciecamente, e questo era il motivo per cui, ogni volta che per lavoro doveva lasciarmi sola all'improvviso, gli chiedeva di farmi compagnia.

E Cam non diceva mai di no. Si presentava alla porta con la sua faccia da schiaffi e metteva le mani dappertutto.

«Quindi?» schiacciò l'avocado e lo spalmò sul pane. «Adesso mi dici di cosa volevi parlarmi o dobbiamo ancora fingere che io abbia frainteso?»

«Va bene», sospirai. «Vado dritta al punto. Ho detto qualcosa di strano in caffetteria? Qualcosa che ti ha infastidito?»

Sembrò pensarci su, poi scosse la testa. «Perché?»

«Non so, forse perché hai cambiato umore da un momento all'altro e te ne sei andato con la prima scusa che hai trovato?»

«Non era una scusa.» Strappò un foglio dal rotolone di carta e mi passò il sandwich. «Quindi è per questo che mi hai chiesto di venire? Pensi che mi sia offeso perché non sei felice di vivere sotto al mio stesso tetto?»

«Riflettendoci sarebbe un tantino ipocrita da parte tua. Nemmeno tu sprizzi di gioia per questa idea della convivenza.»

«Tu cosa ne sai?» Assottigliò le palpebre e inclinò il capo, scrutandomi come se potesse leggermi la risposta in viso. «Tyler, eh?»

Dalla mia bocca non uscii un solo respiro. Il mio silenzio, però, bastava a confermare l'ovvio.

«Comunque, non è più solo un'idea. Gli abbiamo dato carta bianca, per cui...» Scrollò le spalle e si allontanò per riporre in frigo e nella credenza tutto ciò che non gli serviva più.

«Dicevi sul serio, oggi?» Le mie pupille lo osservarono attentamente, mentre sciacquava il coltello sotto il getto d'acqua del rubinetto e lo sistemava nel porta posate. «Sul fatto che potrei ancora dirgli di no?»

Lo vidi irrigidirsi per una frazione di secondo. «È quello che vorresti fare?»

«Tu lo vorresti?» domandai di rimando.

Under the same roofDove le storie prendono vita. Scoprilo ora