La cena.

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A distanza di pochi passi dall'abitazione di Jane, papà iniziava ad avere dei tic nervosi, frequenti e alquanto fastidiosi. Inspirava ed espirava rumorosamente, tamburellava le dita affusolate sul volante, e lo stringeva per poi rilasciarlo nuovamente.

Lo guardavo di sottecchi, con gran sospetto, cercando di capire quale fosse il motivo di tutta quell'ansia. L'ultima volta che lo avevo visto così smanioso risaliva a due anni prima, quando davanti all'ingresso di un ristorante si apprestava a presentarmi Jane. Ed ero preoccupata, poiché iniziavo a credere che non si trattasse di un nonnulla, che ci fosse sotto qualcosa di grave.

Una volta arrivati davanti al cancello bianco dell'abitazione, mi ritrovai a fissare la scritta Moore incisa sulla targhetta del campanello, nell'attesa che mio padre si decidesse a suonare. Allungò la mano verso il pulsante, ma sembrò ripensarci, e si girò dalla mia parte. «Tesoro, devo chiederti un favore.»

Aggrottai le sopracciglia. «Che tipo di favore?» gli chiesi confusa.

Lui sospirò, passandosi una mano tra i capelli. «So che sei un libro aperto», iniziò a dire, spostando il peso da un piede all'altro. «Così espressiva che basta guardarti per capire le tue emozioni, ma ti prego, per stasera, puoi provare a trattenere questa tua caratteristica?»

Non dubitavo di saper gestire le mie espressioni facciali, e non mi sentivo un libro aperto, ma il modo serioso con cui aveva pronunciato quella richiesta, come se avesse il timore di una mia reazione, mi sbigottì.

Gli appoggiai il dorso della mano sulla fronte. «Ti senti bene? Sto cominciando a spaventarmi.»

Speravo di rilevare l'inizio di una presunta febbre, poiché solo un malanno avrebbe potuto spiegare i suoi deliri.

«La mia temperatura è perfetta, Charlotte» ridacchiò. «Tu provaci, ok? Fallo per me.» Mi fece un sorriso incoraggiante, e senza aggiungere altro pigiò il bottoncino del citofono. Si udì un ronzio, poi la serratura scattò.

Camminai un passo dietro mio padre, percorrendo il vialetto in un silenzio carico di pensieri soffocanti, finché Jane non uscì fuori dalla porta d'ingresso. Indossava ancora la divisa da infermiera, e i suoi lunghi capelli biondi erano legati in una coda alta, leggermente spettinata, ciononostante era bellissima. Si allungò sulle punte, salutando mio padre con un bacio e infine cercò i miei occhi.

Quando li trovò gli angoli delle sue labbra si incurvarono all'insù, contagiando anche il mio sorriso, e qualsiasi cosa mi aleggiasse nella mente, nel momento stesso in cui le sue braccia mi strinsero a sé, si dissolse completamente.

«Pensavo non lavorassi oggi», le dissi togliendomi il giubbino.

Lo sistemai sull'appendiabiti, e mi voltai verso il divano. Ero sicura di trovarci Cameron, seduto a giocare con la Playstation come di consueto, ma fui sorpresa del contrario.

Jane si strinse nelle spalle, esausta. «Doveva essere così, ma ho dovuto sostituire una mia collega. Sono tornata dieci minuti fa, per questo stasera sta cucinando Cameron.»

La guardai con grande scetticismo. «Dici sul serio?»

Annuì. «Ed è anche bravo», mi rivelò con fierezza. «Vado a rinfrescarmi un attimo. Metti tu il vino in frigo?» mi chiese, porgendomi la bottiglia che le aveva portato mio padre.

Le feci cenno di sì con il capo, e mentre lei e papà salivano al piano di sopra andai in cucina.

Non entrai. Mi appoggiai solamente allo stipite.

Cameron era particolarmente concentrato a tagliare dei pomodori. Teneva la testa china sul tagliere, e forse fu per quello che non si accorse della mia presenza, permettendomi così di osservarlo indisturbata per una manciata di secondi. Ero rapita dalla velocità con cui maneggiava il coltello, dalla precisione con cui gli ortaggi venivano affettati, dal movimento delle sue braccia.

Under the same roofDove le storie prendono vita. Scoprilo ora